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Rubrica di Emanuela Medi
 

A Menesta Mmaretata: ma perché si chiama così?

Le pietanze antiche che ancora mangiamo con gusto sono tante e forse nemmeno sappiamo che vengono preparate nelle nostre cucine da centinaia di anni addirittura da millenni. Una di cui si possono rintracciare le origini è la minestra maritata.

Una deliziosa pietanza che si usa preparare in Campania in varie occasioni e cioè a Pasqua, a Natale, a Carnevale e soprattutto quando la natura offre gli ingredienti giusti. In tempi passati essendo un piatto molto ricco addirittura si offriva nei banchetti nuziali.

Molti sostengono che questa pietanza abbia origine dalla “olla potrida” degli spagnoli e quindi in uso dal 1300 con la presenza degli Aragonesi. In effetti la si può trovare addirittura nel De conuinaria di Apicio ( I sec a.C), lo chef per eccellenza dell’antica Roma.

Viene chiamata anche e assomiglia alla “casseula”dei lombardi, ma qui c’è più fantasia, malizia che storia!

La minestra maritata di Elvira

Una delle piú divertenti ricerche gastronomiche che ho fatto riguarda le svariate versioni sulla sua denominazione. Potete interrogare cuochi massaie, ristoratori e ognuno vi darà una versione diversa della motivazione che fa chiamare minestra maritata questa superba ricca pietanza.

Visto che veniva servita ai pranzi di nozze alcuni sostengono che per questo motivo veniva chiamata maritata. Ma una versione più maliziosa è legata al riferimento che soprattutto la pittoresca cultura popolare dava alle pietanze in genere. I salami ammiccano spiritosamente e sono considerati simboli fallici  Le verdure sono simbolo dei genitali femminili. ( Esplicito riferimento nella canzone Michelemmá) e cucinati insieme si …. maritano. Una vera benedizione per un risultato tanto apprezzato! 

Prima di darvi la ricetta in uso oggi tramandata dalle nostre antenate vi voglio trascrivere quella di Bartolomeo Zito detto il Tardacino, riportata nel Defennemiento della Vaiasseide, poemetto eroicomico apparso nel 600.
Rigorosamente in antico colorito dialetto partenopeo, prezioso soprattutto per la descrizione realistica della società napoletana vivace e chiassosa. A dimostrazione di quanto questa  lingua fosse congeniale a poemi romanzi commedie. Il poemetto fu dotato di una dedica “a lo re de li vienti”  “ al re dei venti”.

RICETTA

“Dinte a nu pignato mettite carne de jenco grassa, capone mpastato, gallina casareccia, sausecciune de Costa, na fella de verrina, quatte cape de sausicce cervellate, nu piezze de caso nostrano, ossa mastro, spezie. E po’ cotte che songo, na bella torzata de foglie, le cimme cimme, e se lessano soave soave. E ppó vide che te magne!”

La traduco perché possiate stupire: “In un  pentolone mettete carne di giovenca grassa, un cappone imbottito, una gallina casareccia, un salsiccione di frattaglie di maiale, quattro capi di salsicce cervellatine, una  bella fetta della parte genitale della scrofa, un pezzo di cacio nostrano, ossa mastre. E poi cotte che sono torzoli e foglie scelte dalle cime più tenere e si lasciano bollire dolcemente. E poi vedi che ti mangi!

E ora la ricetta che potete realizzare oggi:

Procuratevi un pezzo di bollito di vitellone, spuntature di maiale, dette tracchiolelle, un pollo ruspante e la nnoglia che é un salame speciale, fatto con le frattaglie del maiale, profumato di finocchietto. In costiera amalfitana lo chiamano pezzentella. Poi tutte le verdure che riuscite a trovare. Broccolo siciliano, scarolella, minestra nera, cicoria, finocchio, cipolla, chiodi di garofano, peperoncino….. Fate bollire tutte le carni separatamente. Io le cuocio prima per sgrassare il brodo. Oggi non é più apprezzato il grasso come lo era dagli antichi. Quindi mettete da parte le carni e lessate le verdure con le bucce del parmigiano. Sminuzzate le carni e finalmente unite tutto carni e verdure. Aggiustate di sale e peperoncino piccante(se piace) e abbandonatevi ai sapori e aromi di un cibo che mai ha abbandonato le nostre tradizioni seppure via via adattato ai tempi..

Elvira Coppola

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