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Rubrica di Emanuela Medi
 

A tavola alla corte borbonica di Napoli

Tra poco sicuramente avremo un ricettario” nazionale” del Lockdown , e non sarà male a ricordo di un’Italia a tavola che si spera avrà imparato a nutrirsi meglio in modo collaborativo e salutistico. Un’ Italia a Tavola  che in tempi non sospetti, abbiamo chiamato  A TAVOLA CON GLI ANTICHI, fortunata serie di Gea Palumbo, docente di Storia e Iconografia Università “Roma Tre”, dedicata alle tavole regali.

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Quanto la tavola, i pranzi, il numero delle portate, il numero e la “qualità”degli invitati, la prelibatezza e la varietà dei cibi fossero importanti nelle corti, e, più in generale, presso le aristocrazie europee in età moderna, è cosa nota.

Napoli non faceva eccezione se non perché il succedersi, talvolta rapido, di rivoluzioni, cambi di dinastie dei sovrani e successive restaurazioni, come tra fine Settecento e primo Ottocento,poteva portare cambiamenti repentini anche nella scelta, nella cottura dei cibi come dei vini, perché i cuochi che ogni cambiamento dinastico faceva arrivare al seguito dei regnanti, seguivano tradizioni legate ai cibi, ai condimenti, alle modalità di cottura sovente largamente diversificate.

In ogni caso, la prima cosa che i viaggiatori che venivano a Napoli non mancavano, in genere, di sottolineare, era soprattutto la grandissima differenza che esisteva tra il cibo dei poveri ripetitivo e assai poco variato, incentrato soprattutto, a partire dalla fine del Settecento, sui famosi “maccheroni”, e quello dei ricchi che nella varietà tentava di imitare, con un atteggiamento assai diffuso in Europa, quello aristocratico e regale.

Di Ferdinando di Borbone, il “re Lazzarone” era nota tra l’altro, la passione per il pesce, che amava non solo mangiare nelle più diverse maniere, ma finanche vendere, travestito da pescivendolo, vantandone le qualità ad ignari e meno ignari clienti.

Un’altra passione dei Borbone che era diffusa peraltro in tutta Europa, legata alla tavola, era la caccia che i sovrani solevano praticare in vari siti e anche a Procida,che fu, anzi, il primo sito reale per la caccia, senza preoccuparsi troppo delle conseguenze che tale attività potesse avere per gli abitanti dell’isola. Si sa, ad esempio, che già per ordine di Carlo III, il padre di Ferdinando, proprio per la caccia del re, erano stati portati a Procida numerosi fagiani, che dovevano crescere nella più grande libertà e dai quali i procidani dovevano tenersi lontano essendo loro assolutamente vietato dare la caccia a questi uccelli del re. E affinché questi fagiani potessero crescere e prosperare era stato vietato a tutti di possedere dei gatti.

Divieto, questo, che dovette essere frettolosamente annullato di fronte ad una rivolta degli abitanti dell’isola, che non volevano essere sudditi di un re che teneva più alla vita dei suoi fagiani che a quella dei suoi sudditi, perché la mancanza dei gatti aveva fatto crescere a dismisura i topi che erano arrivati ad attentare alla vita di qualche neonato come ben testimonia Michelangelo Schipa.

Il cambiamento dinastico del 1806, quando i Borbone furono di nuovo costretti a lasciare Napoli per Palermo, segnò il momento più importante della fortuna della cucina francese a Napoli, che, tranne ormai lontane ricette rimontanti al periodo dei sovrani angioini, era stata dimenticata. I “Monsù”, come venivano chiamati i cuochi francesi, erano pronti a portare anche a Napoli tutte le loro specialità da veri “Signori”, come il loro soprannome, derivante naturalmente da “Monsieur” ben lasciava trasparire. Tanto più che mai come in questo periodo, che aveva visto, con la Rivoluzione francese, la fine delle più importanti famiglie aristocratiche, tanti “Monsù” erano rimasti senza lavoro, al punto che proprio per questa ragione continuavano in questi anni ad aprirsi un po’ dappertutto i primi Restaurant che andavano sostituendo le più vecchie e semplici “osterie”. Napoli non fu da meno. Presto ritorneremo su questo tema, perché sarà proprio in questi anni, che si faranno i primi indispensabili censimenti su questo tema.

Gea Palumbo, Università Roma Tre

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