Il vino che si produceva a Procida un tempo riforniva molte trattorie napoletane e per questo le sue qualità, in particolare quelle del vino rosso, venivano celebrate anche in alcune canzoni. Il rosso di Procida aveva qualche qualità in più rispetto al bianco, tanto da essere citato come vino usato per un brindisi, sia pur amaro, in un matrimonio, in una canzone di Libero Bovio (Napoli 1883 – 1942), uno degli autori delle più celebri canzoni napoletane, da “Reginella” , a “Chiove” alla celeberrima “’O Paese d’ ‘o sole” a “Lacreme napulitane” a “Passione”, alla famosa “Surdate” (Soldati), da cui è stata tratta la frase “E so’ Napulitano, e si nun canto, io moro” scritta su una lapide messa dove il poeta abitava, a via Duomo.
Dunque, la canzone dove si celebra il vino di Procida è “Brinneso” (Brindisi). Il brindisi di cui si parla è ironico e doloroso perché è dall’autore indirizzato ad un’antica fidanzata il giorno che lei si è sposata con un altro:
“Brínneso alla salute dell’amirosa mia ca s’è sposata…
… vevite amice: chisto è vino ‘e Proceta,
n’atu bicchiere e nce ne simmo jute.
Ho detto al cuoro, al povero mio cuoro:
chiagne pe’ cunto tujo, ca i’ mo stó’ allèro…”
Perché, a chest’ora,
Mentre tu faje ll’Otello e ti disperi,
Forse la signorina è già signora!
Il rosso di Procida era realizzato con una mescolanza di uva di Serra, che era coltivata in modo più intensivo in una zona dell’isola detta, appunto, Punta Serra. Era un’uva ad acino grosso scarso di pruina ed antociani. Era chiamata: “U per e palummo” (Il Piede del colombo) ovvero l’attuale Piedirosso, così detto per la colorazione del raspo che ricorda le zampette dei piccioni, e di una uva particolare impropriamente denominata “aglianico”, contorsione del termine “ellenico” che ne ricorda la provenienza.
Oggi può essere classificata morfologicamente come un Greco di Tufo rosso. Il grappolo era a doppia anima e di piccole dimensioni. Il vino ricavato vinificato in assoluto era un vino di corpo di discreta gradazione alcolica e con sentore di lampone. Vinificato insieme alle foglie di ciliegie amarene dava un vino liquoroso e molto aromatico. Il ricordo si è un po ’perso nel tempo.
Per quanto riguarda le regole e i tempi della raccolta, mi sono sempre attenuto alle massime antiche e fidato di esse perché ricche di sagacia e provata esperienza.
Oggi per stabilire il tempo della raccolta ci serviamo di metodi e mezzi scientifici, mostimetri, reflattometri e quant’altro, spesso con risultati deludenti. I nostri vecchi contadini adottavano invece quello che possiamo chiamare “il metodo astronomico” vale a dire un criterio semplicemente calendariale, per stabilire il tempo della vendemmia.
Infatti dopo un primo passaggio per raccogliere le uve interessate da marciume, si arrivava al 19 di settembre, giorno di san Gennaro, per raccogliere il resto delle uve e vinificarle.
Per questo motivo è d’uso l’asserito “San Gennaro taglia mmpar” (per San Gennaro raccogli tutto). Infatti nel nostro calendario liturgico a fine settembre, tempo propizio a questa operazione, si festeggia San Gennaro.
I nostri padri non si ponevano rompicapi né erano costretti ad assurdi e complicati calcoli. Mi chiederete: Ma il vino? Il vino come era? Possiamo ben dirlo, il vino dei vecchi tempi non aveva troppe pretese. Soprattutto il bianco. Doveva servire al consumo locale. Il rosso invece era certamente migliore ed era anche esportato, come abbiamo detto, dai grossisti del continente. E a Napoli e in altri posti era utilizzato nelle feste di nozze. Sia pur amare, come abbiamo visto.
Vincenzo Barbiero