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Rubrica di Emanuela Medi
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Cultura

Il cioccolato nasce nel Centro America precolombiano come bevanda energetica semiliquida. I Maya creano la prima piantagione di cacao, gli Aztechi loro successori, ne riservano il consumo alla casta nobiliare, ed è con intenti pacifici che ne offrono a Pisarro. Il prodotto era però molto diverso dal cioccolato odierno. La pasta di cacao estratta dalle fave non era infatti dolcificata in alcun modo, ma semplicemente amalgamata a farina di mais, acqua e peperoncino. Ne risultava una bevanda amarissima e bruciante, che ai conquistadores sembrò veleno, suscitandone la sdegnata reazione. Non per nulla “cioccolato” deriva dall’antica espressione nauhatl “choco-atl”, letteralmente “acqua amara”. Le prime fave di cacao arrivarono in Spagna nella seconda metà del Cinquecento, e la pianta viene classificata dai botanici col nome di “Theobroma (in greco, “cibo degli dei”) cacao”. Si deve alle religiose dei conventi la messa a punto di una ricetta più gradita al palato europeo, con aggiunta di zucchero e vaniglia. Da liquido il cioccolato diviene solido a partire dall’Ottocento, in seguito ai perfezionamenti introdotti dall’olandese Van Houten e successivamente prende la classica forma di tavoletta, ideata dallo svizzero Henri Nestlé. Resta, comunque, una solida tradizione del cioccolato in tazza, soprattutto nella Mitteleuropa e nella nostra Torino, una delle capitali mondiali del cioccolato. Dall’originario Centro America, la pianta del cacao

Il vino che si produceva a Procida un tempo riforniva molte trattorie napoletane e per questo le sue qualità, in particolare quelle del vino rosso, venivano celebrate anche in alcune canzoni. Il rosso di Procida aveva qualche qualità in più rispetto al bianco, tanto da essere citato come vino usato per un brindisi, sia pur amaro, in un matrimonio, in una canzone di Libero Bovio (Napoli 1883 – 1942), uno degli autori delle più celebri canzoni napoletane, da “Reginella” , a “Chiove” alla celeberrima “'O Paese d' 'o sole” a “Lacreme napulitane” a “Passione”, alla famosa “Surdate” (Soldati), da cui è stata tratta la frase “E so' Napulitano, e si nun canto, io moro” scritta su una lapide messa dove il poeta abitava, a via Duomo.  Dunque, la canzone dove si celebra il vino di Procida è  “Brinneso” (Brindisi). Il brindisi di cui si parla è ironico e doloroso perché è dall’autore indirizzato ad un’antica fidanzata il giorno che lei si è sposata con un altro: “Brínneso alla salute dell'amirosa mia ca s'è sposata… … vevite amice: chisto è vino 'e Proceta,  n'atu bicchiere e nce ne simmo jute. Ho detto al cuoro, al povero mio cuoro:   chiagne pe' cunto tujo, ca i' mo stó' allèro…” Perché,

Ci si chiede spesso chi fu l’inventore del panettone classico. Esistono due “versioni” risultanti da un mix di leggende e di fatti realmente accaduti. La prima riguarda un capocuoco al servizio di Ludovico il Moro, incaricato di servire un pranzo di Natale più che sontuoso, da servire a un ristretto numero di nobili invitati a corte. Antipasti, primi di ogni genere, arrosti e formaggi vari, tutto filò via assai bene. In  cucina vi era  da fare e forse, proprio per questo, qualcuno scordò di togliere il dolce dal forno. Giunti al dolce, il capocuoco si rese conto di averlo quasi carbonizzato per eccessiva cottura e pertanto non era nemmeno presentabile. Era ormai troppo tardi per preparare nuovamente un impasto così elaborato; poco importava chi aveva dimenticato il dolce nel forno, tanto Ludovico se la sarebbe presa con lui e lo avrebbe condannato a morte.  Va detto che un semplice sguattero di nome Toni aveva approfittato di alcuni momenti liberi nel corso della prima mattinata, cucinando per sé un dolce a base di farina, burro, uova, scorza di cedro, frutta candita e uvetta. Voleva farselo cuocere al termine del lavoro per avere qualcosa da mangiare.  Propose perciò al capocuoco di servire in tavola tale dolce

Se nella gerarchia della Chiesa troviamo Papi e alti prelati di stomaco robusto e indulgenti al vino, non meno folta è la schiera di santi a protezione della vigna e del vino. Tra i più noti nella tradizione popolare t e S Teodoro  quest’ultimo protettore degli osti: di questo Santo si dice che quando si verificò una terribile gelata che distrusse gran parte dei vigneti, riempì miracolosamente tutte le botti che erano rimaste vuote a causa della calamità. San Martino ricordato l’ 11novembre perché coincide con la fine della vendemmia, è il protettore dei bevitori moderati da quando, inseguito da un gruppo di ubriachi, fu nascosto da un oste in una botte, da qui la tradizione di spillare le botti per assaggiare il vino nuovo e la corsa dei mariti traditi. Come mettere insieme e dare un senso alla fine della vendemmia, allo spillare delle botti e alla corsa dei mariti traditi, onestamente è difficile, ma le tradizioni popolari vanno prese senza troppe interpretazioni. S. Clemente d’Alessandria conosceva l’apprezzamento che la Bibbia faceva del vino e come per gli ebrei nessun sabato e nessuna festa iniziava senza che prima dei pasti non fosse lodato il vino,  lo stesso santo lo indicava come

Una delle poche feste di origine “laica” che raccoglie molti consensi nell’isola di Procida è quella della elezione della Graziella che si ispira, nel nome, al celebre personaggio del romanzo di Alphonse de Lamartine ambientato nell’isola ai primi dell’Ottocento. Nell’ambito della presentazione delle varie “Grazielle”,i festeggiamenti si legano pertanto a manifestazioni che ricordano antiche consuetudini, tra cui, talvolta, quelle culinarie. E così, ogni grancia -così erano allora chiamati i rioni dell'isola-può portare la sua pietanza che è servita dalla aspirante Graziella ad una giuria di esperti in arte culinaria .Qualche anno fa mi fu chiesto di rappresentare Terra murata con una pietanza della cucina procidana. Mi venne in mente il -Picchi pacchio-che avevo appreso dalla antica famiglia procidana di mio marito,ma con mia grande sorpresa scoprii che era una pietanza ormai dimenticata , ma assai diffusa, nella Costiera di Amalfi e Sorrento, come nell’isola di Capri ed infine nota pure nella grande Napoli e in Sicilia. Le melanzane alla Picchi pacchio erano, dunque un piatto della cucina tradizionale napoletana con un apporto della cucina siciliana(il Regno delle due Sicilie condensato in un piatto) con anche una derivazione che alcuni riconducono -almeno per quanto riguarda la diffusione mediterranea - alla cucina araba (l'agrodolce).Il

Bambini oggi adulti consapevoli domani: si parte dalla scuola per fare proprio il rispetto verso l’ambiente e acquisire una educazione alimentare e del gusto che non sia solo salute, benessere  ma un diverso stile di vita più equo e come si dice oggi sostenibile. E’ il progetto Slow Food : dall’11 al 18 novembre 21 mila studenti dai 3 ai 14 anni, , di 860 classi appartenenti a circa 250 plessi in tutta Italia in occasione della Festa dell’Orto in Condotta 2019. Una data strettamente legata al naturale susseguirsi delle stagioni, in un ciclo che negli ultimi anni è stato messo a dura prova dalla crisi climatica: dall’era preindustriale a oggi la temperatura media a livello globale ha già superato i +1,5°C e potrebbe raggiungere la soglia considerata ancora gestibile dei +2°C già prima del 2030. Tra le principali cause di questa crisi c’è proprio il settore agricolo dell’era industriale, che genera più di un quinto delle emissioni globali di gas serra, determinando il forte legame tra quello che mettiamo nel piatto e i cambiamenti climatici. Ma su cosa dovranno e si stanno impegnando i 21 mila ragazzi? Su almeno 10 delle azioni individuate dalle Nazioni Unite da conseguire per il 2030: ECCOLE Coltivo l’orto per scoprire le leggi non scritte di piante e animali - faccio merenda con

Che gli spaghetti siano nati a Napoli, o, come molti sostengono in Cina, è comunque certo che sia il teatro, sia il cinema, sia le canzoni italiane li hanno diffusi per il mondo, è proprio il caso di dirlo, in tutte le salse. La scena più famosa, dove gli spaghetti hanno, per così dire, conquistato il primo posto, è quella del celebre film Miseria e nobiltà, con Totò e Sophia Loren con la regia di Mario Mattioli del 1954

A Napoli, sempre più spesso file ordinate di turisti percorrono le strade del centro storico, visitano chiese e monumenti, stazionano a lungo, anche sotto il sole più ardente, con paziente flemma anglosassone aspettando il proprio turno. Essi, come tutti i turisti del mondo, scattano innumerevoli foto, comprano pubblicazioni illustrate su Napoli e i suoi “contorni”, ascoltano attenti le spiegazioni che le loro guide, nelle più diverse lingue, danno, cercano luoghi dove dormire, si informano attentamente sui locali dove mangiare.