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Rubrica di Emanuela Medi
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Degustazioni

I vini spumeggianti italiani continuano a crescere in produzione, notorietà, considerazione e soprattutto in qualità, ma una qualità identitaria di origine, di vitigno, di passione e di gusto. Soprattutto il “metodo italiano” (non chiamiamolo:  Charmat o Martinotti o grandi botti o con le autoclavi) ha acquisito una sua vita, una posizione sul mercato nazionale e mondiale. Non più spumantini e pinottini, ma sono chiamati con il loro nome. Oggi alcuni hanno raggiunto un livello e un rapporto valore/identità molto alto (con prezzi decisamente consoni al loro valore: dagli 8 ai 16 euro in cantina, decisamente corretti ed equi) che sa soddisfare le domande del consumatore sia maturo che neofita….tutti alla ricerca di una scelta e abbinamento non scolastico e non dettato da guide e sommelier, ma soggettivo e privato, spessissimo fuori da un mariage accademico  e imposto da altri. sono vini freschi, moderni, innovativi Si può bere molto bene anche con una bottiglia di “metodo italiano” checché-ne-dicano certi colleghi esterofili o troppo esclusivisti e assolutisti su certi aromi di origine fermentativa. Ecco la mia scelta per tutti i gusti, tutte le tasche, tutti gli abbinamenti, sia domestici che fuori casa.      Birbante Vermentino di Sardegna DOC, brut della Tenuta Asinara, ottenuto

Giovane, riserva o spumante il Grignolino è sempre lui, l’Antico Piemontese. Al via, domenica 20 settembre a Vignale Monferrato (AL),  il banco di degustazione di Grignolino, proposto dal Consorzio vini Colline del Monferrato Casalese in collaborazione con l’AIS Piemonte nell’ambito della kermesse dei sapori Golosaria. Le prime notizie sul Grignolino risalgono all’anno di grazia 740,  durante il regno del longobardo Re Liutprando.  all’inizio del XX secolo venne considerato tra i principali vitigni piemontesi e quotato come Barolo e Barbaresco. Il Grignolino, da secoli, continua ad essere tra i vini fini di qualità, apprezzatissimo per il suo colore rubino chiaro, il profumo particolare e il gusto sapido, netto e leggermente amarognolo, ma delicato. Questi gli Antichi Piemontesi in degustazione: Ermanno Accornero, Hic et Nunc, Oreste Buzio, Canato Vini, Il Mongetto, Gaudio e Scamuzza di Vignale Monferrato; Angelini Paolo, Beccaria Vini e Cantine Valpane di Ozzano Monferrato; Vi.Ca.Ra., Castello d’Uviglie e Bonzano Vini di Rosignano Monferrato; Alemat di Ponzano Monferrato; Tenuta La Tenaglia di Serralunga di Crea, La Faletta di Casale Monferrato, La Casaccia di Cella Monte, Cantina Colli di Crea di Serralunga di Crea, Pierino Vellano di Camino, Cinque Quinti, Castello di Gabiano di Gabiano; Botto Vini di Sala Monferrato; Agricola Bes di

Il Carmenere, vitigno francese naturalizzato cileno, è scomparso dal Medoc oltre un secolo fa. Difficilissimo da portare a maturazione e sensibile a ogni genere di malattia, è stato progressivamente estirpato per fare spazio ai fratelli Cabernet Sauvignon e Cabernet Franc - con cui condivide l'alto quantitativo di pirazine, molecole responsabili degli aromi vegetali - e al più docile Merlot. Al giorno d'oggi, ne rimangono solo 2,5 ettari in tutto il territorio bordolese, di cui circa uno e mezzo all'interno della proprietà di ChateauClercMilon, terzo e più piccolo dei tenimenti della famiglia Rothschild di Nathaniel.  Jean Emmanuel Danjoy e Frederic Faure, rispettivamente direttore e cellar master dello chateau, hanno voluto riscoprirlo e provare a vinificarlo in purezza, e sono riusciti ad ottenere l'appellationPauillac per il loro esperimento monovarietale. Così facendo, hanno concepito il primo Carmenere a denominazione controllata della storia di Francia. Ovviamente non si tratta di un'etichetta regolarmente commercializzata: "Per il momento è solo da una chicca da servire per stupire gli ospiti in visita all'azienda - afferma Faure - chissà, però, se in futuro non diventerà qualcos'altro. Mai dire mai." DEGUSTAZIONE Spillato direttamente dalla botte, il campione della 2018 del Carmenere di ClercMilon appare subito bizzarro al punto da essere quasi spiazzante. Vendemmiato

Dai tempi dei fenici fino ai romani e oltre il vino veniva prodotto e conservato in un’anfora. Il materiale utilizzato era la terracotta, all’interno della quale i vini nascevano, si affinavano, venivano trasportati da una sponda all’altra del mare. Oggi si riscoprono antiche tradizioni che permettono ai vini moderni di essere assaporati come anticamente. Gli antichi ne facevano già buon uso ma solo recentemente l’utilizzo della terracotta per fare il vino è stato nuovamente riscoperto.  Per la porosità che caratterizza questo materiale, l’utilizzo della terracotta senza alcun rivestimento permette una intensa ossigenazione e il buon passaggio di ossigeno determina una maturazione ottimale dei vini rossi ma anche di quelli bianchi.  Molte le cantine che utilizzano questo materiale come ad esempio la terracotta della terra d’Impruneta che non ha problemi di metalli pesanti con il vino, sia a contatto con la terra sia con le giare ricoperte da c’era d’api o da resine di vetro. Ha una capacità di isolamento termico straordinaria e consente al vino di non subire sbalzi termici eccessivi durante la conservazione. Primi, dopo i Romani 2000 anni fa, e unici produttori dell’Isola d’Elba di vino rosso in terracotta, la  cantina Tresse ICT produce un vino ottenuto dopo un lungo

Lo avevamo detto l’anno scorso e lo ribadiamo quest’anno: il Taurasi è senz’ombra di dubbio il vino più folle, più anarchico del belpaese. Non esiste una ricetta per produrlo: non ci sono regole, né correnti di pensiero, nemmeno un’ annata di riferimento. Ogni bottiglia è una sorpresa, ogni azienda un cosmo a sé stante; ogni comune, ogni contrada, ogni pezzo di terra ha una storia diversa da raccontare. Una sola cosa è certa: se è vero che i vini “affinati” sono quelli che patiranno meno questa crisi, allora i produttori di questo forastico Aglianico di montagna possono dormire sonni tranquilli. L’unica caratteristica che li accomuna è, infatti, una pazienza quasi arcaica. In questo mondo del vino frenetico, di cui solo la pandemia è riuscita a frenare la corsa, i viticoltori taurasini sono tra i pochi che non si affrettano a commercializzare le nuove annate non appena il disciplinare lo consente. A dire il vero, non sembra proprio importargli quanto tempo debba passare: quello che conta, nella loro ottica, è che il vino esca fuori dalla cantina già pronto per essere goduto appieno.A Ciak Irpinia 2019, il prof. Luigi Moio - deus ex machina di alcuni dei campioni del territorio -

Il vino e’ un bene nazionale per imprese, bilancio, export, occupazione. Sotto l’ombrellone beviamo effervescente e spumeggiante. Fa allegria e dinamicita’. La qualità organolettica delle bollicine italiane sembra non essere più in discussione. Con il piccolo fenomeno franciacorta di 15-18 anni fa che ha iniziato a scalfire l’immagine e il valore simbolo e storico dello Champagne e poi l’avvento prepotente e dirompente del Sistema prosecco Docg-Doc di 5-7 anni fa. Il 2019 ha sancito e confermato alcuni primi posti dell’Italia spumeggiante: primo paese produttore al mondo e primo esportatore per volumi, il primo paese al mondo per la più alta biodiversità di vitigno da cui si ottengono uve per i vini spumanti. Prodotte 750 milioni di bottiglie e qualche milione meno spedite e consumate in 365 giorni, in 116 paesi, per un valore all’origine di    1,892     mld/euro e un valore al consumo globale (nazionale e estero) di 6,181    mld/euro. Consumo interno nazionale non elevato ma buono arrivando a sfiorare le 200 mio/bott, ben 545 mio/bott esportate (di cui 430 targate docg e doc Prosecco). Il vino spumante è sempre più un biglietto da visita e di attrazione turistica importante, per questo il Covid19 sta influenzando consumi e valore già nel

Funambolico, polimorfico, cerebrale e aristocratico. Il Greco di Tufo non ha l’avvenenza, l’estro da rockstar del fratello Fiano, ma riesce ad interpretare l’annata , il “genius loci” e la personalità del produttore in maniera ancor più precisa e coerente. Funambolico lo è per via dei suoi equilibri precari: lo si vendemmia in anticipo e si ottiene un vino aspro; lo si lascia in vigna qualche mattinata in più e - ammettendo che gli acini non vengano danneggiati da qualche scroscio improvviso - si rischia di dar vita un vino seduto, pesante, sovrabbondante. Cerebrale e aristocratico perché, per apprezzarlo fino in fondo, bisogna conoscerlo, sapere com’è stata l’annata e quali sono le caratteristiche del vigneto da cui proviene. Altrimenti si rischia di non comprenderlo, soprattutto se è figlio d’annate bizzarre come le ultime due. I millesimiDifficile trovare annate più diverse e contrastanti di quelle di quest’ultimo biennio. Gli unici denominatori comuni del ‘18 e ‘19 sono stati l’andamento altalenante e la piovosità quasi monsonica nel periodo primaverile. Per il resto, le stagioni hanno offerto condizioni diametralmente opposte, ma chi ha saputo far fronte alle avversità - troppa pioggia, umidità, vigoria produttiva nella ‘18, sbalzi climatici, qualche grandinata e maturazione disomogenea nella ‘19

“Il profilo che tracciamo di questa regione è quantomeno preoccupante. Ci sono ancora molti problemi basilari; infatti alcune non riescono ancora a ottenere una regolare erogazione di alcuni fondamentali servizi. (…) Sembra assurdo possibile che possano succedere ancora episodi simili in un paese come l’Italia che è fra i più industrializzati del mondo. (…) La strada da percorrere è ancora molto lunga per ottenere il recupero di un’enologia di una regione nella quale, come in molte altre, si è per lungo pensato più alla quantità che alla qualità” Stefano Di Marzio, Presidente del Consorzio Tutela Vini d'Irpinia Queste parole, che introducono la sezione Campania della guida vini d’Italia 1989, rappresentano, alla luce dello stato attuale del comparto regionale, la prova tangibile del miracolo che prima i viticoltori irpini, e poi quelli di tutte le altre zone della regione, hanno compiuto nell’arco di poco più di trent’anni. Sapevamo che avremmo dovuto citarle, perché aiutano a capire quanta strada sia stata fatta in così poco tempo. Ci è sembrato opportuno utilizzarle per introdurre il vino simbolo di questa rinascita: il Fiano di Avellino.In quella guida di Fiano di Avellino ne erano presenti solo due: il Vignadora ‘87 di Mastroberardino, azienda definita come “una cattedrale

Il territorio ligure si presenta come una sottile mezzaluna che collega la Toscana alla Francia con 1538 ettari di vigneto tra mare e montagne per una viticoltura definita eroica caratterizzata da tipici terrazzamenti a strapiombo sul mare. I vini di questa regione dallo stile mediterraneo sono di grande impatto e derivano specialmente dalle uve Pigato e Vermentino. Lo Sciacchetrà che in dialetto ligure significa “schiacciare” per indicare la pigiatura dell'uva, è il vino simbolo delle Cinque Terre, un passito tra i più rari in Italia, riconosciuto oggi come presidio Slow Food. Tra i vitigni il più diffuso è il Vermentino in provincia di La Spezia che regala vini bianchi freschi e sapidi, più eclettici dei cugini sardi, ma comunque ottimi con il pesce in particolare i crostacei. Da citare anche il Rossese di Dolceacqua della riviera di Ponente che sembra fu il vino rosso preferito da Napoleone, piacevole ed elegante dai sentori di frutta rossa, fiori e spezie.  Tra Savona e Imperia si coltiva invece il Pigato (dal latino picatum per i puntini sulla buccia dell’acino) vitigno arrivato dall’Egeo nel Medioevo e diffuso nel Secondo Dopoguerra grazie al turismo sulla costa; il vino paglierino brillante e tipico di aromi fruttati se