a

I Tag di Vinosano
Rubrica di Emanuela Medi
 

Come Pinocchio scoprì la morale sotto la buccia della pera

Che Pinocchio sia nato in un’Italia assai diversa dalla nostra, lo abbiamo subito sospettato, anche da bambini, quando le sue avventure ci sembravano avvenute in un mondo magico senza tempo e senza storia. Anche le varie trasposizioni cinematografiche o televisive, hanno generalmente enfatizzato lo straordinario immaginario fantastico in cui il burattino pensa e si muove. Ma per comprendere più concretamente il paese in cui, pur tra campi dei miracoli e aule di ingiustizia il nostro eroe si avvia a diventare un “bambino normale”, forse non c’è metro più appropriato che quello, per così dire “alimentare”.

Pinocchio è appena venuto al mondo che riceve la sua prima lezione di morale del risparmio: non solo bisogna mangiare anche la buccia della pera, ma giammai gettare via il torsolo. Potranno venire tempi peggiori, e bisogna imparare a vivere con poco: “In questo mondo, fin da bambini, bisogna avvezzarsi abboccati e a saper mangiare di tutto, perché non si sa mai quel che ci può capitare. I casi son tanti!”. E così, in questo quadro di utilizzo di ogni cosa senza sprechi e di moderatissimi consumi, il cibo non può che diventare lo sfondo fantastico dove si muove il desiderio e si concretizzano i sogni di benessere, ma dove, soprattutto se è ottenuto senza merito, si può celare l’inganno.

Inganno che, ispirandosi alle mitiche liste infinite magistralmente descritte da Umberto Eco, fa la sua grande comparsa all’Osteria del Gambero Rosso, dove, per fermarci al menu servito al Gatto, vi sono enumerate “trentacinque triglie con salsa di pomodoro e quattro porzioni di trippa alla parmigiana: e perché la trippa non gli pareva condita abbastanza, si rifece tre volte a chiedere il burro e il formaggio grattato…”.

E se l’acqua, secondo l’etica condivisa nel libro, si offre senza chiedere in cambio nulla, il cibo vero e proprio, senza metaforiche esagerazioni, viene invece offerto e accettato, in un moderato crescendo che parte dal semplice pane, passa al “cavolfiore condito coll’olio e coll’aceto” e culmina con “un bel confetto ripieno di rosolio”, solo e sempre in cambio del lavoro: lavoro che, nel caso specifico richiesto al burattino affamato, consiste nel portare una brocca colma di acqua. E la Fatina dai capelli turchini (tale scopriamo essere anche la donna della brocca d’acqua) personaggio tra i più importanti destinati a trasmettere principi di morale e regole di comportamento al burattino, utilizza metafore alimentari per rappresentare quella “normalità felice”, agognata da Pinocchio anche nel promettergli una festa con i suoi amici. Ella propone infatti di preparare “panini imburrati di sotto e di sopra”. Vale a dire non solo imburrati (usando dunque il burro, un prodotto ancora non comunissimo in Italia come era invece in vari paesi del nord Europa), ma panini in cui il burro è usato con un’abbondanza golosa segno di una ricchezza che sottrae la vita dei bambini ubbidienti alla precarietà povera e affamata cui sono destinati gli impenitenti vagabondi, che non vogliono studiare o lavorare.

Anche nella colazione servita a Pinocchio in una lentezza essa stessa educativa dalla Lumachina su un vassoio d’argento, c’era del cibo ottimo per soddisfare la fame “un pane, un pollastro arrosto e quattro albicocche mature”, ma erano tutte cose di gesso colorato, come Pinocchio scopre amaramente, catapultato improvvisamente in pauroso incubo infantile destinato a ribadire ancora una volta che il cibo, se non è meritato, non può soddisfare se non l’apparenza del piacere.

Lezione, questa, che il babbo aveva già impartito al burattino, esortandolo a mangiare le pere tutte intere senza trascurare né la buccia, né il torsolo. Babbo che, non dimentichiamo, di mestiere faceva il falegname, ma che la pentola, nella sua casa, la teneva dipinta su un fuoco anch’esso solo in figura, quasi a dichiarare, con la muta verità delle immagini, che tutta quella morale, se pure fosse stata condivisa da Pinocchio, non sarebbe bastata a vivere e a mangiare.  Perché Geppetto, sebbene falegname, era un “falegname povero” come Pinocchio racconta al buon Mangiafuoco che, pure lui aderendo all’etica del lavoro, si commuove, e contentandosi di mangiare il suo montone mezzo crudo, consegna al burattino cinque monete d’oro da donare al suo babbo. Oro che mai giungerà nelle mani di Geppetto. Forse meglio sarebbe stato chiamare subito il buon vecchio a condividere con lui il montone allo spiedo.

Gea Palumbo, docente di Storia e Iconografia “ Roma tre”

 

Condividi sui social network