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Rubrica di Emanuela Medi
 

E’ pieno di storia l’antico pane nero di Terenzio Neo

Pompei, nella casa detta di Terenzio Neo, secondo alcuni un facoltoso panettiere, si può vedere un celebre dipinto murale ritrovato nel 1868 e a lungo conosciuto erroneamente come ‘ritratto di Paquio Proculo’, a causa di un malinteso creato da un graffito elettorale tracciato all’esterno della casa. In realtà, secondo recenti studi, la vera identità da ascrivere alla coppia ritratta nell’affresco, che si trova oggi al Museo Archeologico di Napoli, non sarebbe quella del magistrato, ma quella del panettiere Terenzio Neo e di sua moglie.

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Qualunque sia la veridicità sull’interpretazione dei personaggi del dipinto che ha suscitato tante teorie,
il ritratto appare un reale “a fresco” perché tinteggiato sul fondo ancora umido per favorirne la presa più viva e realistica dei colori. L’affresco fu ritrovato originariamente nella casa Pansa a Pompei, precisamente nella zona del tablinum, la stanza -forse derivata da un modello etrusco- che per i Romani doveva essere situata di fronte all’entrata e da cui si accedeva al peristilio.
Chiunque entrasse nella casa degli sposi, dopo aver attraversato l’atrium, poteva dunque notare, immortalata, la coppia che sembrava non stancarsi mai di sorvegliare, attraverso il dipinto, la casa. Un uomo con al fianco una donna, entrambi pensierosi, l’una che mostra tavolette cerate e uno stilo, l’altro un rotolo di papiro.

Era questo forse il momento più felice della giornata per gli sposi, quando, riposti gli utensili da lavoro nell’attiguo pistrinum, presi gli instrumenta scriptoria, lo stylus e il papiro, si rifugiavano nel peristilio, nelle vicinanze del quale scelsero appunto di essere immortalati. Mentre Terenzio, con la sua barba leggermente cresciuta appoggia sul papiro arrotolato il mento, la moglie mostra un atteggiamento simile al “Sappho fresco”, con la moda dei lunghi boccoli di capelli -che seguivano, come pare, l’acconciatura lanciata da Agrippina- con lo stylus nella mano destra poggiato sulle labbra e il dittico nella sinistra (cancellata poi nel tempo).

E così la toga che fieramente il panettiere Terenzio Neo indossa, viene interpretata non solo come modo per mostrare la conquista della cittadinanza romana, ma soprattutto come l’ostentazione del raggiungimento di un certo tenore di vita privilegiato. Secondo questa tesi accettata dai più, l’affresco sarebbe quindi l’attestazione di un vantaggioso status sociale raggiunto attraverso il duro lavoro al seguito del pistrinum che forse la coppia possedeva poco distante (pistrinum, forno, dal latino pistor, pinsere, ‘pestare), “dove il grano, prima dell’invenzione delle macine, veniva pestato in tronchi incavati o in mortai”, come recita il Vocabolario etimologico del Pianigiani.
Il ritratto di Terenzio e della moglie -se si accetta l’ipotesi che lo identifica con un panettiere- inserirebbe dunque il nostro Terenzio nella lista dei cosiddetti ‘
parvenu’, i nuovi ricchi, come il Trimalchione nel Satyricon magistralmente descritto da Petronio, che anelavano a ostentare il successo raggiunto, ora con cene sfarzose, ora con ritratti su commissione in cui, mostrando la toga, e esibendo papiri e tavolette cerate, cercavano di costruirsi una più aristocratica e dotta identità.

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Ma perché i panettieri potevano raggiungere tali guadagni
?
Che ruolo aveva il pane per gli antichi romani? Che tipi di pane cuocevano i vari pistores? Quante panetterie esistevano a Pompei? Per il momento soffermiamoci su queste ultime domande, perché è questo che ci mostrano le fonti archeologiche. Bianchi Bandinelli ha sottolineato come non erano rari i casi in cui alcuni panettieri plebei riuscivano ad arricchirsi attraverso il rifornimento dell’esercito durante i frequenti tumulti o le incessanti guerre che stravolgevano la penisola italica alla fine del periodo repubblicano (ed è proprio nei pressi del Vesuvio che la rivolta di Spartaco durò alcuni anni nel 70 a.C.). Il lusso che talvolta i ‘parvenu’ riuscivano a raggiungere attraverso la produzione ed il commercio del pane nell’antica Roma è testimoniato anche da un monumento accuratamente eretto “in perpetuam memoriam” dal panettiere Eurysaces.

Alla morte del fornaio fu innalzato uno sfarzoso monumento funebre presso Porta Maggiore in via Prenestina a Roma, col fregio raffigurante tutte le fasi della lavorazione del pane. L’imponente monumento funebre del fornaio Marcus Vergilius Eurysaces, in seguito inglobato nelle mura Aureliane, è considerato un tipico esempio del cosiddetto “stile plebeo”, lontano dallo stile imperiale che si diffonderà in epoca augustea.
Questo monumento funebre è la testimonianza della possibilità di affrancamento sociale che nell’età repubblicana anche un ex schiavo poteva ottenere attraverso il guadagno ed il riscatto alla condizione di liberto
.
L’iscrizione presente sul mausoleo “Est hoc monimentum Marcei Vergilei Eurysacis pistoris, redemptoris, apparet[oris]” suggerisce che il panettiere era divenuto talmente ricco da tramutarsi in un imprenditore e distributore ufficiale di Stato. Nel fregio è visibile la produzione su larga scala che il panettiere doveva dirigere, una vera catena di montaggio: si possono contare circa una decina collaboratori che si affaccendano nella pesatura e macinazione del grano, la vagliatura della farina, l’allestimento dell’impasto, la pezzatura e l’infornata della pagnotta. Sono rappresentate anche lo stoccaggio del pane nelle ceste ed il successivo peso del prodotto finale, pronto per essere venduto.

Se nell’Urbe operavano veri e propri panifici di produzione industriale a Pompei esistevano, anche se su scala ridotta, numerosi forni perfettamente attrezzati.
Grazie allo studio dei forni rinvenuti nella città vesuviana sappiamo come si svolgeva l’attività quotidiana dei panifici dell’epoca antica negli aspetti più minuziosi. Laddove normalmente l’opificio si divideva su due livelli, era guarnito di un atrio, quattro “cubicola” (stanze da letto) per gli schiavi,  una cucina con bagno, una stalla con greppia per gli animali che servivano alla macinazione, tre zone per la lavorazione del pane dove erano disposte le macine, ovviamente il forno, un ulteriore ambiente per le provviste, ed un ambiente inferiore con un enorme “dolium” affondato nel terreno (corrispondente al πίϑος dei Greci, un vaso talmente grande da poter contenere un uomo – misura che doveva ben adattarsi alla corporatura di Diogene il cinico che l’aveva scelta per abitazione, come ci ha tramandato Diogene Laerzio nel III sec. d.C..

Nella città vesuviana esistevano dunque molti panifici: una trentina sono quelli di cui abbiamo tracce (Eva Cantarella, Luciana Jacobelli, Pompei è viva, Feltrinelli Milano 2013). Oltre il pane più comune, fatto di farina d’orzo e di grano, le fonti ce ne mostrano  vari tipi. Una pagnotta rimasta distrutta e al contempo immortalata dalla lava è un pane inciso al centro che forma otto spicchi, pronti per essere staccati quando ancora caldo; pane  che veniva venduto in forma rotonda molto simile alle nostre pagnotte, un po’ come il partenopeo “Danubio”. Infatti il pane che a Napoli porta il nome del famoso fiume viennese e si diffonde trasformando il Buchteln dell’antico Impero asburgico dall’originale tipologia dolce in edizione salata con prosciutto e formaggio, ricorda molto la forma della pagnotta pompeiana.

L’eruzione ed il tempo hanno annerito dello stesso scuro colore sia quel rotolo di papiro che Terenzio Neo stringeva nella sua destra, sia la pagnotta che con entrambe le mani lo stesso Terenzio, o qualcun altro, aveva appena sfornato e tagliato. Mentre era intento a lavorare nel suo pistrinum, certamente il nostro panettiere difficilmente avrà pensato che quel bianco e soffice impasto si sarebbe trasformato in una rara testimonianza di vita quotidiana romana.
Mai egli avrebbe potuto supporre che ciò che impastava con tanta cura sarebbe stato uno dei più interessanti ritrovamenti archeologici pompeiani, una pagnotta millenaria che avremmo ammirato oggi sui libri di storia ancora integra ed invenduta. Il tempo e la sorte avrebbero conferito a quell’ammasso di farina scura, il fascino ineffabile di un annerito antico reperto.

STORIA DEL PANE

Il pane, del resto, come si sa, alimento base per buona parte della popolazione, ha avuto un ruolo cruciale nella storia, sebbene in forme e cotture diverse. E i “Padri del pane”, come di tante altre cose, possono essere considerati gli antichi egizi, soprattutto perché scoprirono il ruolo cruciale della lievitazione che per molto tempo fu un processo considerato misterioso, mentre in realtà era il semplice risultato della formazione di anidride carbonica che, per opera dei batteri, si liberava dalla decomposizione degli zuccheri esistenti nei cereali, appena si lasciava l’impasto per un po’ di tempo senza utilizzarlo. Lievitazione che non per nulla gli ebrei, fuggendo dalla schiavitù egizia, secondo il racconto biblico, dovettero trascurare per la fretta, mangiando così quel pane “azimo”, vale a dire non lievitato, che rimarrà elemento di un rito conservato nei secoli.

Anche i greci, del resto, passarono, sebbene non tanto presto, da una sorta di primitiva focaccia arrostita su pietre roventi, ai tanti tipi più raffinai di pani lievitati. E uno dei più interessanti è certo quello citato da Aristotele, forse il suo prediletto, il dipiros, come dire quello passato due volte nel fuoco, pane che si cuoceva infatti interrompendo varie volte per un attimo la cottura gettandovi un po’ di acqua sopra, cosa, questa, che provocava il formarsi di una bella crosta dorata in superfice come dire “bis-cottata”. Il pane però più vicino ai nostri dolci era forse quello della pastorale Cappadocia che era impastato con il latte.E dai greci, e in particolare da alcuni prigionieri macedoni, più tardi sarebbe entrato anche in Italia, secondo Plinio, l’uso del pane lievitato, solo nel 168 a. C.

Per tornare poi al panettiere del nostro affresco, egli, ormai nel primo secolo dopo Cristo, doveva certamente essere in grado di offrire tantissime tipologie di pane, di cui forse la moglie teneva accuratamente nota nel suo dittico. Forse il fornaio sapeva fare anche il pane più untuoso e saporito (quello detto adipatus), letteralmente ingrassato, cotto col lardo, un pane divenuto celebre al tempo della guerra gallica perché avrebbe aiutato Cesare a conquistare la Gallia facendogli vincere la battaglia di Alesia. Pane col lardo che non fu sufficiente però a salvare le truppe tedesche durante l’assedio di Stalingrado.
Ma certamente Terenzio sapeva fare, oltre al prezioso e bianco siligineus  riservato alle tavole dei ricchi, anche tanti altri tipi di pane, come ad esempio il plebeius per i più poveri, o il canfusaneus, quello pesante usato dai gladiatori che proprio nella zona vesuviana, come si sa, si erano rifugiati durante la terza guerra servile, quella di Spartaco (73-71 a. C.), pesante, nutriente e saporito proprio come il nostro pane “cafone” che oggi si vende nelle campagne, ed in particolare in quelle attorno al Vesuvio.

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