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Rubrica di Emanuela Medi

Nel 1840 Edgar Allan Poe scrisse uno dei suoi racconti più interessanti e suggestivi, che non apparteneva, come quelli più noti, al genere del soprannaturale o del terrore, ma aveva per oggetto e scenario la realtà quotidiana di Londra.

Un uomo seduto all’interno di un caffè nel centro di Londra aveva l’abitudine di osservare attentamente tutti quelli che passavano per strada, cercando di indovinarne dall’aspetto e dal comportamento non solo il mestiere ma anche i tratti del carattere. Era un procedimento che sarebbe stato ripreso poi da Conan Doyle: il suo eroe, Sherlock Holmes, si divertiva spesso a indovinare, o piuttosto a dedurre, la qualifica, la professione e la personalità di qualcuno servendosi esclusivamente di un’attenta e accurata osservazione. 

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Edgar Allan Poe

In realtà Conan Doyle, il quale si era chiaramente ispirato, tra l’altro, per foggiare il suo detective, proprio a un personaggio di Poe, l’August Dupin della Lettera rubata e del Delitto della Rue Morgue, dichiarò che nel delineare la sua creatura aveva preso a modello Joseph Bell, un medico e docente universitario di Edimburgo del quale era stato anche per qualche tempo assistente. Il dottor Bell stupiva i suoi allievi quando riusciva a capire provenienza e professione di un paziente che non aveva mai visto in  precedenza dall’analisi dei più piccoli particolari che immancabilmente si rivelavano decisivi non solo per una corretta diagnosi medica, ma anche per tracciare un profilo psicologico del soggetto.

Il personaggio di Poe, seduto nel caffè a osservare la fiumana di gente che gli passava davanti, non aveva dubbi nell’individuare non solo la categoria a cui appartenevano le persone che vedeva, ma anche, in qualche misura, l’attitudine morale. Gli bastavano infatti pochi sguardi e qualche particolare (un abito, un’espressione del volto), per essere certo di non sbagliare. In quella variegata umanità che percorreva la strada egli non faticava a riconoscere i più diversi soggetti: nobili, mercanti, impiegati di vario livello, professionisti, ladri, tagliaborse, giocatori, mendicanti, usurai, carbonai, ubriaconi, pasticcieri, spazzacamini, prostitute di ogni età, riuscendo anche a vedere in qualche misura nel loro animo.

Ma questo osservatore tanto sicuro di sé entrò in crisi quando vide un vecchio che fluttuava, per così dire, tra la gente, senza che egli riuscisse a inquadrarlo in uno dei suoi consueti schemi o a definirlo in qualche tipologia sociale e morale. Gli abiti e il comportamento del vecchio erano laceri e a brandelli, ma l’osservatore non riusciva  a attribuirgli sic et simpliciter la qualifica di mendicante, tanto lo avevano colpito la sua indefinibile espressione e i sentimenti che si succedevano sul suo volto e che sfuggivano a ogni classificazione.

Conan Doyle

L’uomo del caffè rimase talmente preso dal desiderio di capire chi fosse quel vecchio magro, segaligno e sfuggente, che per una intera giornata si spinse addirittura a seguirlo per scoprirne l’identità. Sul volto del misterioso vecchio si leggevano vari sentimenti e stati d’animo mentre fendeva la folla o si addentrava nei vicoli quando quella si diradava: malizia, avidità, ferocia, panico, disperazione, ma anche gioia improvvisa quando tornava a fendere la calca nelle strade di Londra. 

Quel vecchio vagava inspiegabilmente  per le strade in un andirivieni senza meta, senza scopo, senza senso, in un confuso intreccio di passioni che si disegnavano sul suo volto. Alla fine, con un procedimento che ci ricorda quello quasi metalinguistico di un altro suo racconto, William Wilson, vero alter ego dell’io narrante, l’osservatore capì che quel vecchio che si aggirava per le strade di Londra non era altro che l’uomo della folla (così era intitolato il racconto). Lo scrittore scorgeva in lui l’indistinta, informe personificazione di una pluralità di identità, che si realizzava solo nella moltitudine. Il vecchio era il prototipo dell’uomo dall’oscuro passato, gravato dalla solitudine e forse dai rimorsi: soltanto nella folla la sua disperazione svaniva, perché il suo io nella folla si confondeva e si perdeva.

Ebbene, in questi giorni che sembrano riprendere imperiosamente, coi loro divieti il titolo di un celebre romanzo ottocentesco di Thomas Hardy, Via dalla pazza folla (Far From the Madding Crowd, adattato con buona fortuna anche sullo schermo), quel vecchio è più che mai attuale. 

Come è noto, Napoli è stata sempre una città accogliente e socievole: i suoi abitanti fraternizzano più di quelli di altre zone del paese, dove sono abituati a una maggior riservatezza fino a sembrare scostanti.

Il distanziamento sociale imposto dalla pandemia è sofferto a Napoli più che altrove, proprio per l’esuberante, chiassosa e espansiva indole di un popolo, almeno come molti sostengono da tempo immemorabile, allegro per natura (non a caso la città ha prodotto più comici che tragici), che a qualcuno non piace, a giudicare da vari cori razzisti che si sentono in certi stadi del Nord e che gettano discredito prima di tutti su quelli che li intonano.

Sarà per l’istinto di gregge, che ha pure a che fare con la famigerata immunità di gregge; sarà per l’insofferenza di molti a essere isolati in casa se single, o costretti a un ménage di cui avrebbero volentieri fatto a meno con la petulante consorte, l’insopportabile suocera, i frignosi pargoli; sarà perché alcuni psicologi si fregano le mani prevedendo un incremento delle loro entrate grazie alle prossime venture nevrosi degli abitanti del Bel Paese; insomma, sia come sia, la gente di Napoli, abituata a processioni e Piedigrotte, anela al bagno di folla non per annegare la sua disperazione come il vecchio di Poe, ma, al contrario, perché nella folla trova un comune sentire, una universale sintonia, una ideale, fisica e tangibile  fratellanza.

Il pittoresco e forbito governatore Vincenzo De Luca, al quale va riconosciuto l’indubbio merito di esprimersi in perfetto idioma toscano senza mai sbagliare un congiuntivo avrà il suo bel da fare a evocare lanciafiamme, cinghialoni e fratacchioni, ma la realtà è un po’ diversa. Dopo più di due mesi di forzata clausura, il pur disciplinato popolo morde il freno, e non vede l’ora di poter tornare nelle strade. 

Sotto il dominio spagnolo Napoli era chiamata la Fedelissima, e, al pari dell’Arma dei Carabinieri, nei secoli fedele, ubbidiente e fedele è stata finora alle imposizioni restrittive; ma,  come diceva Totò, ogni limite ha una pazienza, soprattutto quando c’è qualcuno, come la governatrice calabra, che cerca di sottrarsi alle disposizioni del governo. 

Il napoletano pur soffrendo la mascherina perché somiglia tanto a un bavaglio, non rinuncia per questo a far sentire la sua voce. Bisogna però aggiungere che alcune categorie di persone non sono per niente contrarie alle mascherine, anzi. I brutti  e le brutte hanno tutto da guadagnare da quel pezzo di stoffa che li rende simili ai belli celando brufoli, nasi rincagnati o prominenti, bocche storte, mascelle quadrate, menti sfuggenti, denti guasti, alito repellente, e così via.

C’è il napoletano che, pur paziente, non potendone più della quarantena, si limita a bofonchiare, mormorare, borbottare, sussurrare a mezza bocca perchè la mascherina distorce l’eloquio. C’è il tipo attaccabrighe e iracondo che si toglie improvvisamente la mascherina per bestemmiare con più comodo contro il coronavirus e l’universo mondo, che al pari di Cecco Angiolieri, manderebbe a fuoco senza pensarci due volte. 

Un comune rimpianto lo hanno però tutti, mansueti e iracondi, borghesi e proletari, in attesa della sospirata apertura. In cima alle sofferenza del popolo napoletano c’è la forzata rinuncia alla beneamata invenzione che nessuno può togliere alla gloria della città e che tutti vogliono, e la vorrebbero, lì, in pizzeria, appena sfornata. Lo diceva pure un milanese, l’indimenticabile Giorgio Gaber: Ma tu vulive a pizza, a pizza, a pizza, ca pummarola ‘ngoppa, ca pummarola ‘ngoppa… e sognano, ovviamente, di mangiarla con amici e parenti, nei vecchi locali del centro.

www.farodiroma.it/bollettino-partenopeo-nostalgia-della-folla/
Giacomo Mezzabarba

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