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Rubrica di Emanuela Medi

Forse non c’è luogo poetico in tutta la storia della letteratura dove il racconto di una vigna si leghi di più, con più vincoli e con maggiore passione, alla vita stessa, se non quando Omero, nell’Odissea, ci descrive l’incontro di Ulisse con il padre Laerte. Laerte, che è stato il re di Itaca, non reggendo più al dolore per la lontananza senza notizie del figlio, ha lasciato la reggia e si è ritirato nei campi.  Ha lasciato il grande palazzo, le vesti regali, il suo letto, si è vestito di stracci, coltiva la terra, dorme in inverno con gli schiavi vicino al fuoco, di estate su un mucchio di foglie nella sua vigna.

La cura delle piante, con le fatiche che comporta, con il tempo e l’attenzione che richiede, gli consente di sopportare quel dolore della lontananza che nessun’altra attività meno manuale, meno faticosa, meno ritmicamente modulata gli consentirebbe. Curare le viti è per lui un po’ come curare il figlio lontano, è entrare con l’immaginazione in un tempo antico, perché, come Omero ci farà comprendere a poco a poco, è proprio tra quelle piante, è proprio condividendo con lui quei gesti di cura, che Laerte ha educato Ulisse quando era bambino.

E Ulisse, dopo essersi fatto riconoscere dal figlio e dalla moglie, dopo aver fatto giustizia uccidendo i Proci, finalmente si reca in campagna per farsi riconoscere anche dal padre. Ma quando lo vede, così trasformato, così invecchiato e fragile, che curava un alto albero di pero, dopo venti anni di solitudine, quasi che un riconoscimento improvviso potesse in qualche modo spezzare quella vita che solo un faticoso equilibrio aveva mantenuto, dilata il tempo del riconoscimento e, mentre il padre zappa la vigna, Ulisse, dopo aver lodato la cura che con cui è tenuto il vecchio podere,inventa di essere un altro. Dice di aver incontrato Ulisse, e di averlo lasciato cinque anni prima. Ma ecco che, proprio vedendo l’effetto devastante che quel falso racconto provoca in Laerte,vedendo il dolore davvero disperato del padre che interpreta quelle parole come la sicura notizia che il figlio sia morto, che Ulisse abbraccia finalmente Laerte e si svela.

Ma anche Laerte, così come aveva fatto Penelope, gli chiede un segno sicuro. E Ulisse, dopo aver inutilmente mostrato la cicatrice sulla gamba, finalmente comprende che solo quella campagna, quegli alberi i cui nomi il padre gli aveva insegnato da piccolo, potevano rassicurare il vecchio Laerte che quell’uomo che gli stava parlando era veramente il suo amato figlio Ulisse, che mancava da casa da venti anni (“Gli alberi poi ti dirò, nel ben coltivato podere/ che mi donasti un giorno, quando io te li chiesi fanciullo, / uno per uno, nell’orto seguendo i tuoi passi: tra quelli / camminavamo; e tu mi dicevi il nome d’ognuno. /Tredici peri tu mi donasti, con dodici meli, / quaranta fichi; e poi cinquanta filari di viti / mi promettesti che dati mi avresti; e ciascuno era adulto/ già da far uva; e grappoli in essi fiorian d’ogni specie”, Omero, Odissea, XXIV, vv. 333-340, tr.  Ettore Romagnoli).

Omero sapeva bene che solo quella cultura contadina che misurava il tempo con la vita delle piante, quella cultura in cui Laerte si era rifugiato per sopportare il dolore di vivere, poteva, da quel dolore, farlo uscire. Perché Laerte è un re-contadino, e come tutti i contadini del mondo ha educato il figlio insegnandogli ad amare la terra, a conoscerne le trasformazioni, a curarne le ferite.

E Ulisse, mettendo in parole il racconto di quando era bambino che andava con lui in campagna,ritrova finalmente, accanto alla sua anima migrante e avventurosa, anche la sua antica anima contadina. Nessuno ha saputo raccontare, come Omero,l’archetipica anima contadina che ha alimentato l’infanzia di tutti.

Gea Palumbo, docente di Storia e iconografia Università di Roma Tre

 

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