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Rubrica di Emanuela Medi
 

Nella ‘graeca urbs’ del Satyricon, le tracce di una schiavitù millenaria mai estinte..

Una delle più celebri descrizioni pervenuteci dall’antichità sui Campi Flegrei, oltre quella virgiliana, è sicuramente quella attribuita allo scrittore Petronio  (I sec. d. C.) -passato alla storia per il suo stile di vita come ‘elegantiae arbiter’- nel  famoso Satyricon, considerato il più antico romanzo latino, ambientato in una città greca della Campania una “graeca urbs” assai probabilmente Pozzuoli o Cuma, giunto fino a noi incompleto. Petronio era nato nella antica Massalia (Marsiglia), nella Gallia Narbonense, la parte meridionale della Gallia, detta dai latini “nostra Provincia” (Provenza)

Nel sedicesimo libro degli Annali Tacito racconta il suicidio dello scrittore, identificato nel citato Petronio, avvenuto a Cuma dopo essere caduto in disgrazia dell’imperatore per le accuse di Tigellinus, capo delle guardie pretoriane, a seguito della fallita congiura pisoniana ordita contro Nerone.

L’opera, da cui Federico Fellini trasse un celebre film (Fellini Satyricon 1969) ci fa intravedere i Campi Flegrei, gli immensi latifondi che vi si trovavano coltivati da moltitudini di schiavi, la vita lussuosa e spesso volgare degli arricchiti padroni di enormi ricchezze  attraverso il sorridente disprezzo verso un’intera categoria sociale ormai talmente cresciuta da rappresentare la società stessa, e in particolare quella campana.

Fellini Satyricon 1969

Il Satyricon,  è noto soprattutto per la “cena di Trimalcione”, che occupa da sola la metà dei frammenti.In questo celebre passo del Satyricon si può trovare la proverbiale ostentazione della ricchezza di Trimalcione che era tanto ricco da possedere ogni cosa, e se uno gli chiedeva “persino il latte di gallina” egli lo avrebbe subito trovato (lacte gallinaceum si quaesieris, invenies) Satirycon, XXXVIII. Trimalcione, un ex schiavo arricchitosi, “che portava in faccia ancora i segni dello schiaffo datogli per affrancarlo,” possedeva smisurate ricchezze iperbolicamente descritte: “Oggi, 26 luglio, nel fondo cumano che appartiene a Trimalcione, sono nati 30 bambini e 40 bambine; trasportati dall’aia nel granaio 500.000 moggi di frumento; aggiogati 500 buoi” (Satyricon, LIII).

Ai piedi di Trimalcione dunque si estendevano ampissime zone di terra che gli schiavi erano tenuti a coltivare per legge, secondo una legislazione che oggi consideriamo ingiusta, ma che in antichità era considerata normale anche dal maestro di color che sanno, Aristotele, che aveva di alcune cose una visione un po’, diremmo oggi, conservatrice.

La descrizione della zona flegrea nel Satyricon assume a volte toni surreali: Tra Parthenope (Neapolis) e i campi della grande città di Dicearchia (Puteoli) c’è un luogo spettrale dove la terra è divisa in profondi abissi: quivi regnano il funesto spirito di Cocytus tutto cosparso di fuoco ‘funesto spargitur aestu’, e i furiosi getti d’aria delle fumarole come spruzzi ardenti. Cocytus (dal greco ‘lamentarsi’, potremmo dire “il fiume dei gemiti”) era secondo l’antica mitologia, uno dei fiumi dell’Ade. P L’autore del Satyricon spiega che sulle rocce del grande vulcano non c’è vegetazione, la terra non diventa mai verde e l’erba attorno non può crescere, né i folti boschi possono cingere le rocce e risuonare dei cinguettii di uccelli. Ciò che regna è soltanto il ‘chaos’ sullo sfondo delle tetre rocce di nera pietra pomice (pumice-saxa), all’ombra lugubre dei cipressi. 

Petronio Arbitro

Sappiamo che le acque dei laghi flegrei, oltre ad essere all’origine di miti e racconti leggendari, ospitavano anche prelibati frutti di mare: le cozze e le ostriche raccolte dalla riva del lago di Lucrino deliziavano gli invitati ai pranzi di Lucullo e alle cene di Trimalcione descritte nel Satyricon.

La vicenda dell’arricchimento dell’ex schiavo Trimalcione in questa prospettiva, proprio nell’ironica e surreale amplificazione voluta dall’autore, è anche, per noi, una testimonianza sul quotidiano sfruttamento cui i servi erano sottoposti giornalmente nel mondo romano, non avendo la possibilità di opporsi, pena la morte, al loro padrone, i cui ordini dovevano essere rispettati, e potevano essere di tipo lavorativo, economico, sessuale o anche imposizioni punitive di altro genere.Le costanti guerre e le conseguenti vittorie dell’invincibile macchina bellicosa romana avevano creato un vero e proprio esercito di schiavi provenienti da tutti i territori conquistati, creando situazioni anche esplosive, come testimoniano le guerre servili e la rivolta capeggiata dallo schiavo trace Spartaco che, manco a dirlo, ebbe il suo principale teatro proprio in Campania.Secondo alcuni man mano che la Repubblica romana si espandeva e i territori venivano sottomessi, il numero di schiavi aumentava in maniera così esponenziale che circa una persona su tre non poteva dirsi libera, condannata a ingrossare le fila di un esercito di nullatenenti, in una condizione di inferiorità che non poteva essere risolta dallo schiavo stesso a meno che questi non si distinguesse per qualche particolare merito. Ma anche in quest’ultimo caso lo schiavo aveva bisogno dell’intercessione del proprietario, altrimenti la condizione di schiavitù si poteva trasmettere per nascita e  sopravvivere all’interno dei gruppi familiari da padre in figlio/a per generazioni.

Pompei 2012 (8057031891).jpg

Oggi uno dei tanti problemi della società antica la ritroviamo neii moderni schiavi, vittime dello sfruttamento di un caporalato illegale senza pietà, che li ingaggia in cambio di pochi spiccioli, danaro che viene inviato, tra l’altro, quasi totalmente a parenti lontani in terre colonizzate e martoriate non troppo tempo fa dalla civile Europa.I nuovi schiavi lavorano silenziosamente come lunghe ombre che si sacrificano al sole cocente d’estate o sotto la pioggia molesta e le gelate d’inverno, morendo di stanchezza sui campi per giornate di lavoro interminabili, fino ad essere ancora al lavoro ben oltre il tramonto. . In realtà gli schiavi di oggi non meno di quelli antichi non hanno cure, né cibo sufficiente perché sono esseri umani non legali, che nessuna legislazione ha per secoli riconosciuto,  Ma se Trimalcione da schiavo divenne liberto, oggi, che ufficialmente gli schiavi non esistono più, molto difficilmente uno schiavo di oggi riesce ad affrancarsi. 

La legge, sosteneva Diogene, come ricorda Valerio Massimo (I sec. a. C. – I sec. d. C.), nella sua raccolta dei Fatti e detti più memorabili, è come una ragnatela, può reggere per talune cose ma per altre non è adatta, quasi come se i buchi troppo grandi non riuscissero a reggere il peso di un’iniquità sociale troppo greve (Valerio Massimo, Factorum et dictorum memorabilium libri IX, II, 8).

Antonio Di Fiore

Dal Faro di Roma http://www.farodiroma.it/tra-dicearchia-e-il-litorale-domizio-la-graeca-urbs-del-satyricon-le-tracce-di-una-schiavitu-millenaria-mai-estinte/

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