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Rubrica di Emanuela Medi
 

Pompei e la pagnotta millenaria

Se nella città di Roma operavano veri e propri panifici di produzione industriale a Pompei esistevano, anche se su scala ridotta, numerosi forni perfettamente attrezzati. E con lo studio di queste antiche panetterie gestite da modesti lavoratori e con gli affreschi nelle case delle persone comuni che possiamo comprendere gli orizzonti nuovi che e storia dell’arte a lungo considerate scienze separate, possono aprire lavorando insieme. 

Antico Pane ritrovato a Pompei

Attraverso lo studio di oggetti di vita quotidiana appartenuti a uomini e donne comuni, l’archeologia ha contribuito a rendere la storia una disciplina molto più concreta e capace di farci comprendere davvero la vita degli antichi padri, permettendoci di ricostruire anche  microstorie di uomini e donne del passato. Poiché le scienze storiche sono volte ad indagare il tempo passato non solo attraverso lo studio di documenti scritti, atti ufficiali e fonti politico-militari, ma anche con tutto ciò che l’archeologia può ritrovare. Come sottolineato anche da Bandinelli, gli storici ed archeologi “non possono fare a meno gli uni dagli altri”.

Grazie allo studio dei forni rinvenuti nella città vesuviana sappiamo come si svolgeva l’attività quotidiana dei panifici dell’epoca antica negli aspetti più minuziosi. Laddove normalmente l’opificio si divideva su due livelli, era guarnito di un atrio, quattro “cubicola” (stanze da letto) per gli schiavi,  una cucina con bagno, una stalla con greppia per gli animali che servivano alla macinazione, tre zone per la lavorazione del pane dove erano disposte le macine, ovviamente il forno, un ulteriore ambiente per le provviste, ed un ambiente inferiore con un enorme “dolium” affondato nel terreno (corrispondente al πίϑος dei Greci, un vaso talmente grande da poter contenere un uomo – misura che doveva ben adattarsi alla corporatura di Diogene il cinico che l’aveva scelta per abitazione, come ci ha tramandato Diogene Laerzio (III sec. d.C.) nelle sue Vite dei filosofi

Nella città vesuviana esistevano dunque molti panifici: una trentina sono quelli di cui abbiamo tracce (Eva Cantarella, Luciana Jacobelli, Pompei è viva, Feltrinelli Milano 2013). Oltre il pane più comune, fatto di farina d’orzo e di grano, le fonti ce ne mostrano  vari tipi. Una pagnotta rimasta distrutta e al contempo immortalata dalla lava è un pane inciso al centro che forma otto spicchi, pronti per essere staccati quando ancora caldo; pane  che veniva venduto in forma rotonda molto simile alle nostre pagnotte, un po’ come il partenopeo “Danubio”. Infatti il pane che a Napoli porta il nome del famoso fiume viennese e si diffonde trasformando il Buchteln dell’antico Impero asburgico dall’originale tipologia dolce in edizione salata con prosciutto e formaggio, ricorda molto la forma della pagnotta pompeiana. 

L’eruzione ed il tempo hanno annerito dello stesso scuro colore sia quel rotolo di papiro che Terenzio Neo stringeva nella sua destra, sia la pagnotta che con entrambe le mani lo stesso Terenzio, o qualcun altro, aveva appena sfornato e tagliato. Mentre era intento a lavorare nel suo pistrinum, certamente il nostro panettiere difficilmente avrà pensato che quel bianco e soffice impasto si sarebbe trasformato in una rara testimonianza di vita quotidiana romana. Mai egli avrebbe potuto supporre che ciò che impastava con tanta cura sarebbe stato uno dei più interessanti ritrovamenti archeologici pompeiani, una pagnotta millenaria che avremmo ammirato oggi sui libri di storia ancora integra ed invenduta. Il tempo e la sorte avrebbero conferito a quell’ammasso di farina scura, il fascino indescrivibile di un annerito antico reperto.

Il pane, del resto, come si sa, alimento base per buona parte della popolazione, ha avuto un ruolo cruciale nella storia, sebbene in forme e cotture diverse. E i “Padri del pane”, come di tante altre cose, possono essere considerati gli antichi egizi, soprattutto perché scoprirono il ruolo cruciale della lievitazione che per molto tempo fu un processo considerato misterioso, mentre in realtà era il semplice risultato della formazione di anidride carbonica che, per opera dei batteri, si liberava dalla decomposizione degli zuccheri esistenti nei cereali, appena si lasciava l’impasto per un po’ di tempo senza utilizzarlo. Lievitazione che non per nulla gli ebrei, fuggendo dalla schiavitù egizia, secondo il racconto biblico, dovettero trascurare per la fretta, mangiando così quel pane “azimo”, vale a dire non lievitato, che rimarrà elemento di un rito conservato nei secoli. 

Anche i greci, del resto, passarono, sebbene non tanto presto, da una sorta di primitiva focaccia arrostita su pietre roventi, ai tanti tipi più raffinati di pani lievitati. E uno dei più interessanti è certo quello citato da Aristotele, forse il suo prediletto, il dipiros, come dire quello passato due volte nel fuoco, pane che si cuoceva infatti interrompendo varie volte per un attimo la cottura gettandovi un po’ di acqua sopra, cosa, questa, che provocava il formarsi di una bella crosta dorata in superficie come dire “bis-cottata”. Il pane però più vicino ai nostri dolci era forse quello della pastorale Cappadocia che era impastato con il latte. 

E dai greci, e in particolare da alcuni prigionieri macedoni, più tardi sarebbe entrato anche in Italia, secondo Plinio, l’uso del pane lievitato, solo nel 168 a. C.

 Per tornare poi al panettiere del nostro affresco, egli, ormai nel primo secolo dopo Cristo, doveva certamente essere in grado di offrire tantissime tipologie di pane, di cui forse la moglie teneva accuratamente nota nel suo dittico. 

Forse il fornaio sapeva fare anche il pane più untuoso e saporito (quello detto adipatus), letteralmente ingrassato, cotto col lardo, un pane divenuto celebre al tempo della guerra gallica perché avrebbe aiutato Cesare a conquistare la Gallia facendogli vincere la battaglia di Alesia. Pane col lardo che non fu sufficiente però a salvare le truppe tedesche durante l’assedio di Stalingrado.

Ma certamente Terenzio sapeva fare, oltre al prezioso e bianco siligineus  riservato alle tavole dei ricchi, anche tanti altri tipi di pane, come ad esempio il plebeius per i più poveri, o il canfusaneus, quello pesante usato dai gladiatori che proprio nella zona vesuviana, come si sa, si erano rifugiati durante la terza guerra servile, quella di Spartaco (73-71 a. C.), pesante, nutriente e saporito proprio come il nostro pane “cafone” che si vende nelle campagne, ed in particolare in quelle attorno al Vesuvio. 

Antonio Di Fiore

www.farodiroma.it

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