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Rubrica di Emanuela Medi
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Molti sono i passi dell’Odissea in cui Omero menziona il vino e le sue parole, come quelle dei tanti poeti che vennero dopo di lui, ci hanno tramandato la straordinaria importanza che questa bevanda ebbe per il mondo greco. Il vino era considerato sacro, e si venerava il dio del vino e dell’ebbrezza: Dioniso, identificato dai latini  con Bacco.  Friedrich Nietzsche (La nascita della tragedia 1872) fa risalire a Dioniso lo spirito “dionisiaco” opposto a quello “apollineo” che invece veniva generalmente considerato tipico del mondo greco in una visione diremo così “alla Winckelmann”, e questo spirito dionisiaco era celebrato  nelle feste che dal dio prendevano il nome nelle quali venivano rappresentate tragedie, commedie e drammi satireschi. Praticamente tutta la drammaturgia antica, i più grandi capolavori del teatro che abbiamo, le tragedie di Eschilo, di Sofocle e di Euripide, per non citare che i tre massimi tragici greci, erano legate a  questa divinità, espressione non solo e non tanto dell’ebbrezza, quanto dello stesso slancio vitale e creativo che si cela in ogni essere umano. Omero  E così anche il genere della poesia lirica detto Ditirambo (dithyrambus, gr. διϑύραμβο) secondo una delle etimologie più diffuse alludeva ai misteri dionisiaci e al mito di Dioniso come

Forse non c’è luogo poetico in tutta la storia della letteratura dove il racconto di una vigna si leghi di più, con più vincoli e con maggiore passione, alla vita stessa, se non quando Omero, nell’Odissea, ci descrive l’incontro di Ulisse con il padre Laerte. Laerte, che è stato il re di Itaca, non reggendo più al dolore per la lontananza senza notizie del figlio, ha lasciato la reggia e si è ritirato nei campi.  Ha lasciato il grande palazzo, le vesti regali, il suo letto, si è vestito di stracci, coltiva la terra, dorme in inverno con gli schiavi vicino al fuoco, di estate su un mucchio di foglie nella sua vigna.