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Rubrica di Emanuela Medi
 

Tante le stelle per il whisky giapponese: lo sapevate?

“È tempo di relax, è tempo di Santory”: i fan del film ‘Lost in translation’ di Sofia Coppola ricorderanno bene la battuta-tormentone che accompagna il personaggio di Bill Murray durante la pellicola. L’attore in declino, interpretato da Murray, si trova a Tokyo per pubblicizzare il whisky giapponese Santory, situazione che nel 2003 (anno di uscita del film) appariva surreale, tanto sembrava impensabile associare questo genere di distillato al Giappone.

Eppure, nello stesso 2003 lo Yamazaki whisky di 12 anni prodotto da Suntory ha conquistato il premio più importante dell’International Spirit Challenge. Da quel momento il whisky prodotto in Giappone ha conquistato le luci della ribalta e l’apprezzamento degli intenditori, fino ad arrivare al 2015 anno in cui Yamazaki Single Malt Sherry Cask 2013 (sempre Suntory) è stato nominato “Miglior whisky al mondo” dalla Jim Murray’s Whisky Bible.

Degna di nota è anche la produzione di birra: molto probabilmente la prima è stata prodotta nel 1853 da un dottore, Kōmin Kawamoto, seguendo una ricetta trovata in un libro olandese. Ad oggi sono 4 le aziende leader del settoreAsahi, Sapporo, Suntory e Kirin – nomi che si possono ormai trovare facilmente anche nei ristoranti occidentali.

Il Giappone può vantare anche un discreto numero di bevande ‘autoctone’: la più conosciuta è senza dubbio il sake o nihon-shu, bevanda chiara con grado alcolico che va oltre i 20 gradi, che viene preparata usando come ingredienti base riso, acqua e muffa bianca koji. Il sake può essere servito freddo (reishu) oppure caldo (atsukan), ma comunemente i nihon-shu di qualità non vengono mai serviti caldi. Vi è poi l’happoshu, una bevanda che ricorda, sia per il gusto che per il grado alcolico, la birra ma dal minore contenuto di malto, caratteristica che le conferisce un gusto più leggero rispetto ad una tradizionale bionda. Vi sono infine lo shochu(distillato dalla gradazione alcolica compresa tra i 20 e i 40 gradi di riso, patate dolci, frumento, canna da zucchero) e l’umeshu, un distillato piuttosto dolce derivante dalle susine (“ume” significa proprio “susina”) al quale viene aggiunto zucchero e shochu/nihonsu. Solitamente, tale bevanda viene prodotta in casa, ma la si può trovare facilmente anche nei locali, dove viene servito secco con ghiaccio o mescolato alla soda.

E cosa dire infine del vino, a noi tanto caro? Ebbene, il consumo di vino si sta espandendo anche in Giappone, dove viene prodotto principalmente nella prefettura dello Yamanashi. Considerato una bevanda di classe, il vino viene consumato principalmente nei locali più chic, tanto che un buon bicchiere di vino a Tokyo arriva a costare come l’equivalente di una bottiglia (per fortuna non di pregio) dello stesso vino, in Italia.

Matilde Suderi, giornalista

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