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Rubrica di Emanuela Medi
 

Vin Santo di Trevi: un vino scomparso che meriterebbe di essere riscoperto

Laddove ci sono ulivi, lecci e tartufaie, c’erano un tempo filari di Trebbiano, Malvasia e San Colombano.

I contadini li legavano tra un acero e l’altro, un po’ come si fa ancora con le cosiddette “viti maritate” campane, tenendoli sempre alti per lasciare spazio al bestiame che pascolava liberamente. Le uve, che erano raccolte ad autunno inoltrato, venivano appese su graticci collocati in ambienti ricavati nelle case di pietra. Appassivano lentamente, cullate dai venti che battono costantemente la valle del Clitunno. La fermentazione avveniva in caratelli lungo tutto l’inverno, e terminava giusto in tempo per la Pasqua, tant’è che alcuni storici del vino riconducono la discussissima origine dell’appellativo “Santo” ai festeggiamenti per il Cristo Risorto, nel corso dei quali si spillavano i primi campioni.

A Trevi gli scampoli di quell’antica tradizione sono sopravvissuti fino agli anni 70′. Si è estinta per cause naturali – tra tutte, la morte per anzianità degli ultimi contadini – più che per l’avvento dell’agricoltura industriale, che qui è stato meno massiccio che altrove. Al momento, questo filone della viticoltura Trevano-spoletina non è ancora resuscitato, ma il fatto stesso che se ne parli nel corso dell’inaugurazione di un evento importante come Degusto Trebbiano &Food Festival sta a testimoniare il ritrovato interesse per questi prodotti arcaici, che nel futuro potrebbero tornare ad esistere.

Ma dal momento che le parole tende a portarsele via il vento, si è deciso di far assaggiare alla stampa accreditata una delle poche reliquie sopravvissute. Trattasi del Vin Santo di Trevi 1973 di De Ponti, vino casalingo gentilmente offerto dalla famiglia che lo ha prodotto e custodito fino ad oggi.Appena servito nel bicchiere, questo liquido mattonato e gravido di posa esala lo stesso odore di un abito vecchio appena riemerso da un armadio tenuto chiuso per anni, ma basta farlo respirare un po’ per riattivare la girandola degli aromi. Piano piano la coltre polverosa si leva, facendo emergere sentori rustici e calorosi di dattero, nocino, caramello, tessuto antico, erbe medicinali, tartufo e tabacco, tra i quali s’insinua quel tocco d’idrocarburo che definisce ogni Trebbiano maturo. La bocca è lungi dalle mollezze dei Vin Santi industriali: una spinta quasi disidratante di sapidità rupestre la tonifica e ne amplifica l’avvolgente retro-olfatto terragno. Il residuo zuccherino, percettibile ma mai preponderante, riesce a malapena a placare l’irruenza di un finale tannico e mordace, che insiste a lungo su toni di noce moscata, tintura di iodio e salamoia.

Non è di certo il più preciso e confortante dei vini ultraquarantenni, ma ha grinta tale da far invidia a tanti simili che hanno un quarto della sua età, il che rende auspicabile una riscoperta da parte degli audaci produttori locali, che hanno già dimostrato ostinazione e coraggio nel recuperare il Sagrantino ed il Trebbiano, uve complesse ma capaci di esprimere lo stesso calore ancestrale che rende unica quest’ambrosia rurale.

Raffaele Mosca, Master Sommelier

 

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