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Rubrica di Emanuela Medi
 

L’origine regale dei maccheroni

Come la sua origine storica, l’etimologia dei maccheroni è avvolta nel mistero. Qualcuno la fa risalire a μακαρώνεια, canto funebre, per indicare la pietanza principale del banchetto funebre nel mondo greco, che purtroppo il defunto non poteva più assaggiare, e connettendola a μάκαρ, beato, nel senso decisamente forzato che mangiandoli ci si sentirebbe beati o più coerentemente cibo per i beati, nel senso appunto  ricordato del banchetto funebre.

Etimologia che, per restare in ambito gastronomico, sembra entrarci come i cavoli a merenda, fondata più su una semplice assonanza che su una spiegazione scientifica dal punto di vista linguistico. Senza contare che un banchetto funebre, triste e lacrimevole come dovrebbe essere, ha ben poco a spartire con la beatitudine data da un cibo, a meno che non si voglia sottolineare sì la beatitudine, ma di quelli che gustano i maccheroni. 

Tuttavia costoro non potevano conoscere la prelibatezza di un piatto di maccheroni al ragù intinti nella salsa di pomodoro, per ragioni cronologiche, dal momento che i palati del mondo antico non furono mai a contatto con i pomodori, come abbiamo detto in un precedente articolo e dunque la loro beatitudine doveva essere per forza di cose piuttosto limitata. Sui portali Internet si legge che ancora oggi in alcune zone della Tracia il termine μακαρώνεια designa il banchetto funebre tuttora in uso, con una pietanza a base di riso: dunque, senza nulla togliere al riso, tutt’altra cosa rispetto al nostrano, glorioso maccherone di grano. 

Passando a meno funeree etimologie, qualcun altro connette i maccheroni non alla seriosa tragedia, ma piuttosto all’allegra commedia, e precisamente a Macco, maschera atellana con tutta probabilità capostipite del vorace e crapulone Pulcinella o di altri suoi compari perennemente affamati. Maccus in latino indica il piatto di fave o altro cereale o legume ridotto in puré, fino ad assorbire tutto il brodo e a diventare in pratica una focaccia (il verbo italiano ammaccare deriva proprio dal latino maccare, schiacciare, premere, comprimere l’impasto di farina); e senza dubbio la maschera di Maccus, un insulso ghiottone, prendeva il nome proprio da questa schiacciata, o se si preferisce offa, che avrebbe dato poi origine alla pizza, gloriosa invenzione italiana diffusasi in tutto il mondo. Il fatto poi che il termine maccarone in vari dialetti non solo del Sud indichi un personaggio sciocco e credulone, ci riconduce appunto alla maschera di Macco, la cui caratteristica è proprio quella di essere un ingordo babbeo. 

Eppure questo termine, se pure conserva qualche connotazione, come abbiamo visto, dispregiativa e in certi paesi addirittura razzista (in Francia macaronì indicava sprezzantemente gli immigrati italiani), non manca di qualche accezione positiva. E qui mi soffermerei su un insospettabile ingresso del termine nel lessico e nell’agone politico settecentesco, e precisamente in un inno controrivoluzionario. Ma procediamo con ordine.

La Carmagnole, un inno giacobino composto nel 1792 all’indomani della Rivoluzione e portato dagli eserciti francesi che dilagavano in tutta Europa, si diffuse rapidamente tra le popolazioni a contatto con i cosiddetti liberatori. Suo contraltare è senza dubbio il Canto dei Sanfedisti, un inno delle truppe controrivoluzionarie guidate nel Regno di Napoli dal cardinale Ruffo. Questo inno non manca di una sua rozza e popolaresca efficacia comunicativa, infarcito com’è di termini volgari, ma ben ci immerge nel fervore della lotta politica settecentesca, fatta anche di canzoni oltre che di discorsi, libelli e cannoni, mentre si approssimava la fine della Repubblica Napoletana del 1799.

Consiglierei di riascoltare entrambi questi canti; in particolare, la versione della Nuova Compagnia di Canto Popolare, benemerito gruppo a cui tanto deve la cultura e la musica del Mezzogiorno. Ebbene, se leggiamo (e ascoltiamo) questo singolare inno, fazioso, satirico e sicuramente opera non di un autore sprovveduto, a un certo punto troveremo un riferimento specifico a “Tata Maccarone” ca rispetta a religione. E’ da ricordare che “Tata” in dialetto napoletano vuol dire “padre”

Dunque l’inno, che vale la pena di ascoltare e apprezzare per intero, perché, oltre a essere orecchiabile e gradevole, fornisce riscontri riconoscibilissimi a chi ha una qualche dimestichezza con gli eventi della Repubblica Napoletana del 1799, è in effetti una piccola sintesi in versi di vicende e personaggi dello sfortunato tentativo repubblicano, come il riferimento a Luisa Sanfelice: a lu ponte ‘a Maddalena/’Onna Luisa è asciuta prena/E tre miedece che banno/Nun la ponno fa sgrava’.

Luisa Sanfelice in carcere (1874) dipinto di Gioacchino Toma, Napoli, Museo di Capodimonte.

Al Ponte della Maddalena// Donna Luisa è uscita incinta/ E tre medici che la visitano/ Non riescono a farla partorire.

In effetti Luisa Sanfelice finse di essere in stato interessante nella speranza di evitare o procrastinare la condanna capitale, ma invano, perché le visite mediche appurarono che non era affatto incinta . Ma l’ignoto autore della canzone dei Sanfedisti doveva essere un uomo di lettere e attento all’attualità, come dimostra il beffardo riferimento ai nomi dei mesi che il calendario rivoluzionario francese aveva sostituito a quelli in uso da millenni, e a cui si accenna dopo il ritornello:

Sona sona / Sona Carmagnola/ Sona li cunziglie/ Viva ‘o rre cu la famiglia.

Suona suona/ Suona Carmagnola/ Suona i consigli/ Viva il re con la famiglia.

Passaje lu mese chiuvuso/ Lu ventuso e l’addiruso/ A lu mese ca se mete/ Hanno avuto l’aglio arrete.

Passò il mese Piovoso/ il Ventoso e l’Odoroso./ Nel mese della mietitura/ Hanno preso l’aglio nel sedere.

Viva Tata Maccarone/ Ca rispetta ‘a religione/ Giacubbine jat’ a mmare/ Ca v’abbrucia lu panare.

Viva Tata Maccarone/ Che rispetta la religione/ Giacobini, andate al mare/ Che vi brucia il didietro.

Tata Maccarone? Chi era costui? Ci chiederemo a questo punto come si domandava Don Abbondio quando si imbatté nel nome di Carneade. 

Ferdinando I di Borbone ritratto da Anton Raphael Mengs nel 1772, Palazzo reale di Madrid

La risposta è semplice: si tratta del re in persona, Ferdinando, il Re Lazzarone, uso a mescolarsi col popolo e a giocare con i suoi sudditi travestendosi da pescivendolo, frequentando assiduamente le donnine allegre della città, ma rispettosissimo della Chiesa, perché era ben consapevole che il trono e l’altare dovevano andare a braccetto, perché simul stabunt, simul cadent.

E che tutto sommato il soprannome fosse un epiteto davvero regale, che come tutti i nomi regali si tramandavano da nonno  a nipote, lo dimostra il fatto che un altro soprannome legato al piatto preferito dei napoletani, questa volta declinato alla più ricca lasagna, era stato dato a Francesco II, detto “Francischiello” ed anche, appunto, “Re Lasagna” tanto era ghiotto di questo piatto. Con lui, che fu l’ultimo re di Napoli, l’antico Regno entrò a far parte dell’Italia. 

Antonio Londinium

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