L’occasione era ghiotta, il festival GolaGola and People svoltosi recentemente a Piacenza, per riproporre l’incredibile storia del Gutturnio. Lo hanno amabilmente fatto Gianpietro Comolli giornalista, presidente Ovse-Ceves, e Annamaria Carini già conservatore del Museo Archeologico di Palazzo Farnese : “ il gutturnio- dice Comolli- è un vino piacentino da sempre, è doc dal 1967 fra i primi d’Italia (la legge nazionale doc è del 1963) nato dal mariage di barbera e bonarda…i due vitigni più diffusi in alta Italia… vino rosso per eccellenza.
Inoltre è antichissimo perché sembra che il primo viticoltore a produrlo fosse un tal Saserna, potentissimo latifondista etrusco, che faceva un vino effervescente da uve rosse raccolte sugli alberi su cui si arrampicavano i tralci di vite…..il tutto poi passò in mano ai romani Plinio, Virgilio, Pisone, Cicerone che ne lodarono la qualità. Quando fu necessario “denominare” questo vino l’enologo Mario Prati, Direttore del Consorzio Provinciale per la Viticoltura nel 1938, lo chiamò gutturnium dal nome che era stato dato impropriamente a un vaso trovato in Po, considerato per errore un recipiente destinato alla mescita del vino. E tale nome gli fu accreditato con l’ottenimento del marchio DOC nel 1967.
La perdita del reperto diede vita nel tempo a un’immotivata duplicazione dell’oggetto, un vaso metallico decorato a sbalzo con tralci di vite e grappoli d’uva, dissepolto a Veleia nel 1760 e il boccale o coppa riaffiorata fra le sabbie limacciose del Po a Croce S. Spirito nel 1878.
Ecco il primo giallo!! Ma non è finita, il giallo esiste anche nella stessa produzione vinicola della provincia di Piacenza. Vino nobile o vino popolare? Il vino Gutturnio Doc nasce sicuramente frizzante-vivace (come da tradizione antica di fare il vino ai tempi pre-post romani in tutto l’impero) ma poi diventa anche fermo nel 1986, corposo impegnativo, aristocratico da grandi vini….eppur sempre barbera e bonarda sono! Quindi anche i vitigni più popolari possono dare un grande vino rosso corposo. il vino gutturnio valtidonese e il gutturnio valdardese per indicare solo le due originarie vallate di produzione: uno più asciutto più tannico più verticale per natura per trasferimento dalla terra ligure-lombarda-piemontese e uno più abboccato, armandolato tinteggiante spesso avvolgente dalla terra emiliana-lombarda-cretica del famoso flysch (arenaria-argilla-mana bianca). Quale gutturnium è il gutturnio? ’ideale è che i due gutturnio vini frizzanti e i due fermi siano prodotti con lo stesso metodo, nelle due vallate…ma non come battaglia all’ultimo acino…bensì per far capire cosa succede per lo stesso vino anche solo a distanza di 50-70 km da una cantina all’altra. Ecco la biodiversità e la enosostenibilità tanto decantata.
Ritornando alla ricostruzione storica, decisamente ingarbugliata che ha impegnato non pochi studiosi, è stata fatta chiarezza da un ampio articolo, comparso sul Bollettino Piacentino, a firma di Annamaria Carini già conservatore presso il Museo Archeologico di Palazzo Farnese.
“Il 23 maggio 1878 un piccolo vaso metallico si impigliò nella rete di un pescatore sulla sponda del Po a Croce S. Spirit-dice la storicaCarini-. Lo studioso cremonese don Francesco Pizzi pubblicò una dettagliata relazione su quello che denomina aryballos, segnalandone tra l’altro le misure, la capacità, circa ½ litro, la decorazione e vendita all’estero. In questa storia, semplice e lineare, confonde le carte in tavola Antonio Bonora, Ispettore per la conservazione degli oggetti di Antichità di Piacenza, che localizza genericamente la scoperta nelle vicinanze di Piacenza, chiama l’oggetto gutturnium e lo definisce «una gran coppa d’argento, contenente due litri di vino”, quadruplicandone incredibilmente, la capacità. In realtà nel mondo romano il termine guttus individuava sia un recipiente per olio o profumi usato nelle palestre e nelle terme, sia un vaso da tavola contenente vino, che veniva impiegato anche nei sacrifici. Il poco attestato diminutivo gutturnium era invece attribuito a una brocca per versare l’acqua sulle mani. Guttus e gutturnium erano entrambi muniti di versatoio da cui il liquido usciva goccia a goccia (in latino gutta).
Dall’ inattendibile testimonianza di Bonora, che diventerà la fonte per chi se ne occuperà in seguito – sottolinea la Carini-e per la sua genericità darà luogo a immotivate precisazioni sul luogo di rinvenimento addirittura indicato in Veleia, deriva anche l’errata notizia di un suo trasferimento al Museo Nazionale di Roma.
Nel 1952 in vista di eventi su vite e vino programmati a Piacenza, si realizzò una riproduzione del gutturnium,nonostante fosse ormai impossibile verificarne de visu le caratteristiche. Le Ceramiche di Levante di Nervi realizzarono una serie di multipli su disegno del pubblicistai Aldo Ambrogio che, incrociando le inesatte informazioni di Bonora con l’immagine di un grande bicchiere d’argento del tesoro di Hildesheim conservato a Berlino, lo propose troncoconico, alto 27 cm, con diametro all’orlo di 12 cm. Si fece così strada una rappresentazione del tutto fasulla del vaso che secondo don Pizzi aveva la forma di un “pitalino” e che anche Bonora assimila a un pot de chambre.
Nel 1972 fotografie individuate nel Museo di Cremona insieme alla relazione di don Pizzi, permisero di ristabilire la corretta forma del recipiente che fu riprodotto con grande fedeltà dall’argentiere Cesare Morisi per il premio Gutturnium istituito nel 1987. Da allora perse terreno l’immagine del grande boccale che era stato utilizzato come marchio promozionale da alcune aziende, a favore di quella molto più realistica in argento.
Dimostrata l’infondatezza delle varie e successive denominazioni attribuitegli in passato, il vaso d’argento dal Po è da classificarsi come urceolus, orciolo o brocchetta simile a quattro esemplari del I secolo d.C., rinvenuti a Pompei e prodotti in una officina locale. Le brocchette venivano usate alla fine della cena nel simposio per allungare il vino con acqua calda o fredda e ottenere la miscelazione decisa dal magister bibendi.
Il vino rosso di punta piacentino ha preso dunque il nome da un recipiente per l’acqua, che però mantiene in qualche modo il legame enoico, perché ha la capacità di un sextarius (litri 0,546), l’unità di misura del vino, corrispondente alla quantità che una persona sobria beveva nell’arco della giornata. L’acqua poi era indispensabile nel simposio perché consentiva il consumo del vino: nel mondo romano infatti il vino schietto, il temetum, era destinato solo alle libagioni cultuali, gli uomini dovevano miscelarlo con l’acqua, non solo per scrupolo religioso, ma anche per la gradazione alcolica elevata dovuta alla vendemmia tardiva.
E il vero gutturnium? Ci rimangono le fotografie …
Emanuela Medi, giornalista