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Rubrica di Emanuela Medi

Non c’è prodotto della natura, oltre il frumento, che non sia stato rappresentato in molteplici forme artistiche: anfore, affreschi, pitture, sculture.

Dapprima collegato a una divinità come per gli Egizi dove appariva accomunato alla dea Hathor, divenne secoli dopo Dionisio per i Greci e Bacco per i Romani e questa documentazione ci è pervenuta fino a noi sotto molteplici forme. Nella Tomba di Nakht a Sheikh Abdel-Qurna ad esempio- spiega Veronica Ferretti, critica d’arte e docente di storia dell’arte, compaiono scene di vendemmia e di operosità legate alla raccolta dell’uva.
Negli affreschi dei funzionari Niankhkhnum e Khnumhotep (V Dinastia) sepolti a Saqqara, viene descritta la raccolta nei vigneti dei delta e delle oasi, lo stivaggio dell’uva nei grandi tini di pietra, di legno o di argilla e la fase della pigiatura che avveniva con i piedi, una modalità ancor oggi in uso.

Nella Tomba di Tutankamun vennero ritrovate trentasei anfore contenenti vino, di cui ventisei marcate: sette con sigillo delle tenute del re e sedici con il nome della residenza reale di Aten. Ventitré di questi vini appartengono a tre annate, designate con ‘anno 4’, ‘anno 5’ e ‘anno 9’. Esperti moderni non sono ancora riusciti a comprendere se queste date si riferiscono agli anni di regno oppure se indichino semplicemente gli anni di invecchiamento del vino. Ad ogni modo le ventisei anfore riportano la zona di provenienza, il nome del vinaio e l’anno di produzione, in un certo senso gli egizi anticiparono così, di migliaia di anni, il concetto francese di regione viticola, incluso nel sistema di classificazione dei Bourdeaux del 1855 e nella legge del 1936 sulla appellation controlée- spiega Veronica Ferretti.
Facendo un salto nel tempo, possiamo citare la scena dell’Ebbrezza di Noe” contenuta nella Bibbia che rappresenta gli effetti del vino sul Profeta riprodotti anche nel celebre mosaico della cupola della Basilica di San Marco a Venezia oppure nella Cappella Sistina dei Musei Vaticani di Michelangelo Buonarroti. Non solo- come sottolinea la critica d’arte Virginia Ferretti- è nota la scultura di Prassitele con Hermes e Dioniso oppure il capolavoro di Fidia in marmo pentelico per iil frontone orientale del Partenone oggi conservata presso il British Museum di Londra.
Sono questi alcuni esempi della immensa rappresentazione della bevanda degli Dei trasversale nei secoli e nelle forme.
Che tipologia di vino però bevevano gli antichi? Sicuramente gli Egiziani un vino proveniente da coltivazioni di uve a bacca rossa con poca profumazione per via del contenuto di humus nel terreno ma con molto alcool. Data la struttura del terreno anche sabbioso derivante dalla presenza del deserto, è probabile che i vini fossero freschi, con acidità fissa, molto leggeri, mentre i romani preferivano un nettare più dolce, proveniente da terreni adatti alla coltivazione. Plinio il Vecchio dedica infatti l’intero XIV libro della Naturalis Historia alla vite e al vino proveniente da Berito, l’attuale Beirut, noto per la sua dolcezza.
Diverse testimonianze, ci indicano che nei terreni conquistati in Gallia, a causa della presenza di terreni umidi,il vino aveva un colore tenue, con sensazioni olfattive scarse. I Galli adulteravano l’uva con l’aloe e poiché il terreno non consentiva di estrarre bacche colorate, il vino veniva tinto con erbe e fumo. Nell’antica Roma, il vino era di appannaggio solo agli uomini. Romolo, il primo Re di Roma proibì in un editto alle donne di berlo per tutta la vita . Conquistando la maggior parte del globo conosciuto, i Romani poterono usufruire di una vasta quantità di tipologie differenti di vino. A Chio e a Cipro, come a Lesbo dove vi erano terreni marmosi e ferruginosi a terra rossa si produssero vini di ottima qualità: Celebre e citato fu anche il Malmertino di Sicilia, proveniente da Messina.

Monica Assanta, giornalista

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