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Rubrica di Emanuela Medi

Nessuno degli imperatori di Roma ha fornito tanto materiale per una biografia quanto Flavio Claudio Giuliano, quel Giuliano che si è soliti chiamare il «traditore», l’«infame», questo infatti significa «Apostata», epiteto spregiativo affibbiato dagli avversari cristiani.

I funerali di Costantino si tennero nella città che porta ancora il suo nome, nella tarda primavera dell’anno 337. Il corpo del primo imperatore cristiano era rimasto esposto a lungo prima di ricevere le esequie: per giorni e giorni,  intorno all’imponente bara d’oro coperta di porpora, guardie del corpo, dignitari, vescovi, senatori e semplici cittadini avevano tributato al defunto gli onori di un sovrano vivente. Questa grandiosa e singolare messa in scena durò fino all’arrivo del secondo dei figli di Costantino, Flavio Giulio Costanzo: alla testa di un solenne corteo, Costanzo scortò la salma del padre alla chiesa dei SS. Apostoli, dove la presero in consegna i sacerdoti incaricati di completare la cerimonia.

A Costantinopoli,  siamo all’inizio dell’estate –, ecco irrompere nel palazzo drappelli di soldati, per seminarvi morte: gran parte dei parenti del defunto sono passati alla spada. Solo due bambini sopravvivono al massacro. Il più grande è affetto da una grave malattia: gli assassini lo credono ormai spacciato, e lo risparmiano. Il più piccolo, che doveva avere circa sei anni, suscita la pietà dei soldati o, secondo un’altra tradizione, di un devoto cristiano che riesce a metterlo in salvo. Il nome di questo bambino è Giuliano.

Giuliano venne trasferito a Nicomedia dove trascorre uno dei momenti più felici della sua esistenza. Lì avvenne probabilmente anche il primo decisivo incontro della sua vita, quello col pedagogo Mardonio, già tutore della madre Basilina che accompagnò Giuliano nei suoi primi passi alla scoperta della letteratura antica e soprattutto del massimo poeta, Omero. L’incontro con Omero e i poemi epici fu per il futuro imperatore un’esperienza «totalizzante».

Nella primavera del 347 l’imperatore Costanzo richiamò poi a corte i due fratelli. Giuliano, si affrettò quindi a partire alla volta della natale Costantinopoli. dove  vi proseguì gli studi.Il soggiorno costantinopolitano del principe fu improvvisamente interrotto dal giungere di un dispaccio imperiale che gli ordinava di portarsi a Nicomedia.  dove insegnava il grande Libanio, il retore antiocheno , un insegnante attento e sensibile che  comprese presto ciò che cercava il suo regale e inquieto allievo, e comprese pure che egli poteva contribuirvi solo in parte. La ricerca di una perfetta paideia doveva portare Giuliano altrove, all’incontro con la filosofia.

Se Giuliano rimase straordinariamente affascinato da i cosiddetti «maestri spirituali», che dispensano, centellinando, insegnamenti più o meno segreti piu o meno spirituali.  Affascinanti nell’aspetto – che la saggezza rende eternamente giovanile –, nel portamento, nei modi di fare, di dire o di non dire, questi uomini dallo sguardo penetrante e magnetico erano i privilegiati depositari di un sapere tanto difficile da raggiungere quanto assoluto.  Le loro risposte erano solenni sentenze, responsi oracolari, poiché essi vivevano sulla linea di confine tra il mondo terreno e quello divino. Ma l’individuo che meglio incarnava quest’ideale  era Massimo, uomo dotato di straordinarie capacità, che compiva miracoli facendo animare le statue degli dèi negli umidi antri di Efeso

L’incontro con Massimo fu un’autentica folgorazione costui apparteneva a quella ristrettissima cerchia di saggi dotati di uno straordinario carisma: per il giovane Giuliano, Massimo era ancor più speciale; si potrebbe dire che, ai suoi occhi, egli non si discostasse molto dalla divina perfezione. Egli rappresentava il traguardo del percorso culturale e spirituale iniziato da Giuliano a Nicomedia sotto la guida di Mardonio: Massimo possedeva gli strumenti per svelargli finalmente i misteri dell’universo, per dare un senso alle conoscenze fino ad allora acquisite.

Non era necessario altro per mettere Giuliano sulla strada dell’apostasia: una scelta che lo portò ad avere la coscienza di appartenere a una stirpe speciale, posta sotto la protezione divina del Sole, e che il Sole aveva predestinato al governo del mondo. La scelta pagana di Giuliano acquista così un’importanza in una prospettiva «ereditaria»: come hanno svelato gli studi di Franz Altheim, il culto del Sole investì progressivamente l’area mediterranea a partire dal giovane e folle imperatore siriano Elagabalo.. In Giuliano il Sole era collocato al di là delle Stelle fisse (Ad Hel. reg. 148 a-b), l’astro che Platone assimilava al Bene e i Neoplatonici all’Uno.

Giuliano era occupato nei suoi studi quando, nel 350, l’imperatore d’Occidente, Costante, venne deposto da una congiura di palazzo. Al suo posto fu proclamato un militare di origine semibarbara di nome Magnenzio . un evento che diede inizio a una serie di fatti che porteranno alla soppressione del fratello Gallo. Poco dopo, Giuliano fu richiamato a Milano. Poiché non conosceva ancora la sorte toccata al fratello, si mise in viaggio con animo tranquillo.

Giunse infine ai sobborghi di Mediolanum. Giuliano vi rimase per vari mesi, aspettando Costanzo. Venne informato ufficialmente della fine toccata al fratello e, insieme, venne accusato di aver lasciato Macellum. La situazione si sbloccò solo con l’intervento della moglie di Costanzo, Eusebia, donna bellissima e colta, cui Giuliano rimarrà sempre riconoscente. Grazie alla sua intercessione Giuliano fu assolto da ogni accusa e inviato ad Atene.

Atene aveva tutti i requisiti per piacere a Giuliano, che infatti serberà sempre un lieto ricordo del periodo trascorsovi. Ma la sua gioia fu di breve durata. In autunno ricevette l’ordine di tornare a Milano. Costanzo aveva bisogno dell’aiuto del cugino per porre rimedio a una situazione ormai molto critica generatasi nella Gallia. Il 6 novembre dell’anno 355, Giuliano si ritrovò su un’alta tribuna circondata dagli stendardi militari, di fronte all’esercito. Accanto, suo cugino Costanzo lo teneva per mano. L’imperatore parlò ai soldati comunicando loro l’intenzione di fare di Giuliano il proprio Cesare.

Com’era costume in simili circostanze, l’associazione alla dignità imperiale venne rinforzata con un matrimonio politico: Giuliano ricevette in sposa Elena, sorella di Costanzo. Di questa donna, più anziana del cugino, si sa ben poco. Egli stesso non ne parla praticamente mai: nemmeno la disgrazia, e il presumibile conseguente dolore, costituiti dalla perdita di un bambino, avvenuta circa un anno più tardi, hanno lasciato traccia nei suoi scritti. Il silenzio di Giuliano sulla propria vita coniugale non manca di colpire.

Giuliano immaginava di vivere in un mondo popolato di entità soprannaturali, più o meno perfette: queste erano organizzate infatti secondo una gerarchia, al vertice della quale si trovava il Dio supremo, il principio ineffabile. Subito al di sotto di quest’ultimo c’era Helios, intermediario tra le divinità minori e il Dio supremo.

Giuliano, naturalmente, conosceva bene il cristianesimo e i suoi libri, su cui aveva molto da ridire. Egli considerava la religione dei cristiani un’accozzaglia d’insensate e puerili credenze, raccolte da uomini stolti e maliziosi, che faceva leva sulla parte irrazionale dell’uomo. Cultura greca e parola divina non andavano affatto d’accordo: l’idea che un dio potesse farsi carne, e soprattutto soffrisse e morisse, era semplicemente raccapricciante per una persona assennata. Giuliano ripeteva che i cristiani non erano che degli Ebrei degeneri, una banda di rinnegati che aveva abbandonato l’onorata religione dei loro padri (Ep. 111 [Bidez, p. 189]). Il riguardo che Giuliano ostentava per gli Ebrei non era affatto disinteressato: egli nutriva – come d’altra parte qualsiasi uomo antico – scarsa simpatia sia per il loro dio terribile e vendicativo, sia per i loro barbari costumi. Ma egli sapeva pure che sostenere il mondo dell’Antico Testamento equivaleva a sminuire quello del Nuovo. La sua decisione di ricostruire il tempio di Gerusalemme, quindi, dev’essere letta soprattutto in un’ottica anticristiana. La distruzione del tempio (a opera di Tito, nel 70 d.C.) era un avvenimento profondamente sentito dai cristiani, un fondamento nella loro interpretazione della storia, poiché in questo essi riconoscevano la giusta punizione inflitta al popolo di Israele per aver contribuito alla soppressione del Cristo. La sua rinascita era in realtà un doppio argomento contro la fede: i Vangeli affermavano infatti che non sarebbe mai risorto – o così si interpretava la profezia di Gesù: «non rimarrà pietra su pietra» (Lc. 21, 6). Cosa sarebbe successo se gli Ebrei avessero avuto nuovamente il loro santuario?
Giuliano non volle perdere quest’occasione per provocare il nemico, e concepì un grandioso progetto per la riedificazione del tempio. Le prime pietre furono poste all’inizio del 363, ma l’opera venne presto abbandonata dopo che, tra l’altro, un incendio danneggiò le impalcature.

Non meraviglia che i cristiani abbiano infierito così duramente sulla memoria dell’Apostata, il «quanto mai empio», il «tre volte maledetto Giuliano», un essere demoniaco. Diaboliche in effetti si possono definire – ed erano considerate – alcune delle sue iniziative contro la Chiesa. Nella storia non ci sono molti esempi di un attacco a una religione condotto con tanta lucidità:.

Nel maggio 362 Giuliano lasciò Costantinopoli, diretto a Oriente: , raggiunse Ancira, quindi Tarso, e di lì procedette fino ad Antiochia, in Siria. Lì ebbe inizio , l’impresa che pensava gli avrebbe garantito gloria eterna e ampio consenso: la guerra contro i Persiani.

I Persiani erano i veri grandi nemici di Roma, come in precedenza lo erano stati della Grecia. Si diceva che la guerra contro i Persiani fosse una guerra ereditaria, una guerra di famiglia: Costantino l’aveva lasciata in eredità a Costanzo e questi ne affidava il compimento a suo cugino Giuliano. Un’impresa che si rivelò un disastro. Dopo alterne vicende, saccheggi, distruzioni e combattimenti con l’esercito persiano, nella ritirata verso Samarra, Giuliano, informato di un improvviso attacco alla retroguardia, si precipitò a portare il suo sostegno alle truppe in difficoltà.

Nella fretta egli aveva dimenticato di indossare la corazza; giunto nella mischia, fu colpito all’addome da una lancia.  Fu riportato nell’accampamento dove ricevette le prime cure mediche. In seguito, poiché il dolore era un po’ diminuito, la paura passò: lottando con animo coraggioso contro la morte, chiese di nuovo le sue armi e un cavallo, per ritornare in battaglia a riportare la fiducia nei suoi uomini. Vista la consistenza dell’emorragia, coloro che erano accorsi si resero subito conto che non c’era più nulla da fare. Giuliano si rivolse ai presenti, tristi e abbattuti: annunciò loro di sentirsi pronto a morire. Il rientro dell’esercito in patria fu infatti pagato a caro prezzo. Un ufficiale, un cristiano di nome Gioviano, trattò con i Persiani: rese al nemico gran parte dei territori occupati da Galerio, e con essi la città di Nisibi, inoltre riconobbe a Shabuhr il diritto di scacciare dal trono d’Armenia il re filoromano Arsace.

I sostenitori di Giuliano furono costretti a nascondersi, alcuni vennero perseguiti e condannati, altri sparirono per sempre, altri invece, come il fedele retore Libanio, tornarono a farsi vivi quando le acque si furono calmate, e difesero a spada tratta l’operato dell’imperatore. Si sparsero allora anche molti veleni, venne detto pubblicamente e scritto quanto si mormorava da tempo: che a uccidere Giuliano non era stato un giavellotto nemico, bensì la lancia di un soldato romano, un cristiano. Un vergognoso tradimento, uno scandalo, come scandalosa e umiliante – per tutti – fu la pace conclusa dal suo successore, il cristiano Gioviano. E qui inizia la storia leggendaria di Giuliano, che tanta fortuna spargerà nel mondo di un rinato «Tradizionalismo pagano».

Ezio Albrile, storico dal libro di Ignazio Tantillo, L’imperatore Giuliano (Economica Laterza, 908), Laterza, Bari-Roma 2019

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