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Rubrica di Emanuela Medi
 

La Pasqua ricca di cibi tradizionali

La Pasqua, si sa, celebrata già dagli ebrei come “passaggio” dapprima reale (il passaggio del Mar Rosso per sfuggire alla schiavitù in Egitto), poi simbolica, è più antica del Natale, dunque  anche i suoi cibi tradizionali, a cominciare dall’agnello, sono più antichi.

Anche l’uovo di Pasqua, colorato, naturalmente non quello al cioccolato (che è recente perché la cioccolata è stata conosciuta in Europa solo dopo a scoperta dell’America ed è diventata solida a metà Ottocento con lo svizzero – Daniel Peter-) ma l’uovo  di gallina, simbolo primitivo di origine della vita, è antichissimo. Adottato per la Pasqua dipinto dei più vari colori nel mondo ortodosso, è ricordato anche in celebri romanzi  russi.

Ma, oltre questi, sono talmente tanti i cibi simbolici  che sarebbe difficile dire, tralasciando ovviamente la devozione e lo spirito religioso che accompagna queste due festività, la Pasqua e il Natale, quale delle due, sotto il profilo strettamente gastronomico e calorico, sia più “pericolosa” per i crapuloni.  Tanta infatti è l’abbondanza di leccornie e dolci che mettono a dura prova non solo la resistenza alle tentazioni dei più morigerati, ma quella di tutta la massa gaudente di fedeli. Costoro, animati da fervore religioso o adducendo questa scusante, dimentichi che la gola è uno dei sette peccati capitali, si rimpinzano fino all’eccesso, come se in queste occasioni fosse loro concesso di comportarsi come invitati ai banchetti di Lucullo o di Trimalcione, o a quelle campestri mense imbandite rappresentate nei quadri di Pieter Bruegel e di altri pittori fiamminghi.

Agnello

Ma entriamo in medias res. Come capponi e tacchini tremano all’approssimarsi dell’americano Thanksgiving Day, capitoni e anguille entrano in fibrillazione all’apparire delle prime luminarie di Natale, così agnelli e capretti vengono presi dall’agitazione appena compare la Settimana Santa. In questa internazionale strage degli innocenti sono loro le vittime principali di Pasqua.

Carlo Bertolazzi (1870-1916) scrisse un divertente e commovente racconto, Senz’arrosto, diventato ormai un classico, che aveva a protagonista una di queste bestiole acquistata da un capofamiglia sei mesi prima di Pasqua per essere amorevolmente allevata solo per finire nel forno; ma una volta venuto il fatidico giorno del sacrificio pasquale, nessuno della famiglia, che nel frattempo si era affezionata a Caprin, ebbe il coraggio di trucidarlo per cuocerlo e cibarsi delle sue carni.

Anche il più convinto dei vegetariani ben sa tuttavia che la pratica del sacrificio degli animali è una tradizione antichissima e diffusa in tutte le latitudini;  addirittura nella Bibbia parte da Abele, ed è strettamente connessa al sacro, come del resto indica il termine stesso sacrificio. Nel mondo antico il sacrificio significava il banchetto finale delle carni della vittima immolata da parte della comunità dei fedeli che partecipavano alla cerimonia; in occasione poi delle ecatombi, l’uccisione di cento buoi, che si verificava in particolari e memorabili circostanze, si sfamavano interi villaggi o quartieri della città.

Alla divinità in cui onore veniva effettuato il sacrificio veniva riservato solo il fumo che saliva al cielo; e fu proprio per impedire agli dei di cibarsene per poi venire a patti con loro ricattandoli, che due furbi avventurieri ateniesi si misero d’accordo con gli uccelli per costruire fra le nuvole la città di Nubicuculia. Questa immaginaria, visionaria metropoli, effettivamente costruita dai volatili, avrebbe intercettato il fumo dei sacrifici, come vediamo nella geniale e vagamente irriverente commedia di Aristofane Gli Uccelli  (414 a. C.) certo meno inquietante del film di tutt’altro argomento ma dallo stesso titolo di Hitchcock (The Birds, 1963).

Se per agnelli e capretti Pasqua è una festa solo nel senso che si fa loro la festa, un altro animale, la colomba, può tirare un sospiro di sollievo, dal momento che essa è presente sulle mense pasquali solo per così dire in effigie. In effetti la colomba era assurta a simbolo di pace fin da quando tornò nell’arca di Noè col ramoscello d’ulivo nel becco, a significare la fine del diluvio e dunque la pacificazione tra Dio e la razza umana che poteva così inaugurare una nuova era.

Fonte foto: Wikipedia

La colomba pasquale risale, a quanto pare, a circa un secolo fa, quando la principale industria italiana del panettone, la Motta, anziché aspettare un anno per produrre il dolce natalizio lasciando i macchinari ad arrugginire, pensò di utilizzare gli stessi macchinari per produrre un dolce simile nella composizione ma non nella forma al panettone, e nacque così la colomba pasquale. Questa è dunque una invenzione di marketing, che si è rapidamente diffusa come dono da scambiare per la sua praticità e economicità, ma che non è riuscita a scalzare la tradizione di altri dolci che vantano una ben più antica data, primo fra tutti la pastiera, prodotta in ogni casa con ricette più o meno simili tramandate da generazione in generazione con qualche piccola variante locale o familiare.

Gli ingredienti principali di questo superbo dolce che troneggia, al pari della cassata, un altro monumento della gastronomia pasticciera, sulle tavole italiane e meridionali in particolare, sono ricotta, frutta candita, pasta frolla, grano cotto, scorzette d’arancia, uova, latte, zucchero con aromi vari tra cui, oltre vaniglia e cannella, l’essenza di fior d’arancio, il cui profumo riempie le scale dal giovedì santo alla domenica di Pasqua di tutti i Palazzi di Napoli e provincia, isole comprese.

Fonte foto: Wikipedia

Con tutta probabilità miscugli di alcuni o di tutti questi ingredienti erano frequenti sulle tavole fin dalla notte dei tempi; taluni ritengono che il primo embrione di quella che oggi è la pastiera debba attribuirsi a Antonio Latini di Fabriano (1642-1696), che qualche anno prima di morire, mentre era al servizio del viceré di Napoli Francisco de Benavides, ne scrisse la ricetta e la diede alle stampe nel suo Lo scalco alla moderna (1693).

In realtà la ricetta di Antonio Latini si riferiva a qualcosa che era un ibrido, rustico e dolce insieme, infarcito com’era non solo di marzapane ma anche di pepe e parmigiano grattugiato, ingredienti della pastiera che farebbero inorridire qualunque pasticciere. Infatti, oltre che alle lodi a Dio, le monache, in particolare quelle di Sicilia e quelle di Napoli del monastero della Sapienza, di San Gregorio Armeno, del Divino Amore e di diversi altri conventi, si dedicarono. Fu solo con la rielaborazione della sua ricetta nei conventi femminili che la pastiera divenne quello che oggi conosciamo e gustiamo inventando e perfezionando tante prelibatezze (sfogliatelle, susamiellli, raffioli, pasta reale ecc.) alcune delle quali come i biscotti, si richiamavano nel nome ai più svariati santi.

Il più antico e celebre esempio -che ha lasciato il nome alle omonime squisitezze di Natale preparate fin dai tempi degli Angioini- lo troviamo nel convento delle monache del Divino Amore . Questa dolce e pacifica gara fra monasteri ricorda quelle odierne che vediamo in televisione tra cuochi e cuoche di ogni età, razza e paese, che si affrontano proponendo leccornie di loro invenzione.

Fu solo nel 1837 che Ippolito Cavalcanti (1787-1859), nato ad Afragola da antica famiglia toscana trapiantata nel Napoletano, e figlio cadetto di famiglia ducale, cuoco e letterato per vocazione, pubblicò una Cucina teorico-pratica, libro di ricette più volte ristampato con aggiunte e aggiornamenti, fra le quali qualche anno dopo troviamo in appendice anche la ricetta della pastiera dolce. Possiamo dire che con la divulgazione del segreto delle monache, forse carpito o rivelato, tutte le case di Napoli potettero confezionare questo ormai indispensabile dolce, che i congiunti riuniti nelle tavole a Pasqua spesso confrontano, perché ognuno vi apporta qualche lieve personale variante e lascia ai commensali giudicare. Ed in genere occorre dire che è molto difficile -stante l’alto livello dei partecipanti- pronunciarsi a favore dell’uno o dell’altro, o meglio dell’una o dell’altra perché le vincitrici sono sempre le donne.

 Antonio Londinium

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