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Rubrica di Emanuela Medi
 

A colazione alla Corte di Gioacchino Murat

Tra i documenti che più nel dettaglio ci raccontano di come alla corte di Napoli si vivesse, e soprattutto ci sedesse a tavolo, ci sono i diari di Chatherine Davies, la bambinaia inglese dei figli di Gioacchino Murat e di Carolina Bonaparte (Eleven years’residence in the family of Murat, King of Naples, London 1841).

Questi diari di recente sono stati ricordati anche da Rosa Maria Delli Quadri, in un’interessante collana diretta da Luigi Mascilli Migliorini dal titolo Terra Murata, dedicata cioè a quella parte più antica di Procida che è appunto nota con questo nome (Il cibo dei ricchi e il cibo dei poveri. La cucina napoletana tra vita di corte e vita di strada, in Storie connesse. Forme di vita quotidiana fra Spagna e Regno di Napoli (secoli XIV-XVIII), a cura di Ead. e Mirella Vera Mafrici, Napoli 2018, pp. 103-118).

La Davies, che anche in Francia fu accanto ai bambini,ebbe modo di osservare da vicino i sovrani e di descrivere tutte le loro abitudini. Sappiamo così che i principini affidati alle sue cure cenavano da soli -alla loro tavola neppure la bambinaia poteva sedere- con due piatti di carne, due di vegetali ed un dessert parcamente misurato. E poi con la somma economia degli “antichi”, ciò che restava diventava il loro pranzo.

La regina, invece, faceva una veloce colazione senza alzarsi, poi dopo una rapida toilette si rimetteva a letto fino ad ora di pranzo. Pranzo, questa volta, assai più consistente, durante il quale beveva caffè e cacao, oltre il tè che, come sottolinea giustamente compiaciuta la bambinaia inglese, lei, a differenza di altri in quella corte, amava immensamente.

Gioacchino Murat amava molto il pesce, ma pare che egli preferisse soprattutto il modesto pescato del golfo, le triglie e i capitoni serviti a tavola con le immancabili ostriche, vongole e cozze del Fusaro laddove si trovava quel piccolo gioiello architettonico della Casina Vanvitelliana. Sulla tavola di Gioacchino e Carolina Bonaparte non mancavano, accanto a salumi e salsicce romane, né i latticini di Capodimonte, né il burro di Sorrento, né tutti i formaggi della famosa ancor oggi, splendida, piccola reggia di Carditello.

Il tè era abitualmente servito, proprio “all’inglese” con pane tostato e burro. I sovrani usavano sempre anche panna fresca che veniva preparata in una cascina vicina al Palazzo, dove il re e la regina si recavano spesso proprio a prendere il tè.

La regina, meritatosi per questa abitudine l’apprezzamento anche del diplomatico tedesco Kotzebue, si faceva portare giornalmente una mucca, in modo da poter avere a disposizione sempre latte fresco soprattutto per i bambini.

Abitudine questa, che volle conservare anche nel momento tragico della fine del regno murattiano, quando si fece autorizzare dagli inglesi a portare sulla nave dove era stata imbarcata per essere portata a Trieste come prigioniera, tra gli altri oggetti che più le erano cari,anche la sua mucca, per avere almeno il latte per i suoi figli in quel tragico viaggio. La mucca aveva un solo corno, e portava lo stesso nome che era già stato della regina borbonica in esilio, e destinata tuttavia a rientrare a Napoli, oltre che, naturalmente, della regina in quel momento sconfitta pur essa: Carolina Bonaparte, moglie dell’ancor più sfortunato Gioacchino Murat destinato ad essere ucciso dopo un tragico tentativo di fuga attraverso la penisola italiana.

Gea Palumbo, Università Roma Tre

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