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Rubrica di Emanuela Medi
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Enogastronomia

Chiamato in diversi modi a seconda dei Paesi – da mulled wine in Inghilterra, a vin chaud in Francia fino a gluhwein in Germania – il VIN BRULE’  ha una lunga tradizione legata al Natale e..al freddo. Sempre loro gli antichi Romani cui si riallacciano molte usanze legate lo  preparavano  caldo speziato, miscelato con miele e zafferano fatti bollire insieme.  Se è difficile sciare clausole Dpcm, non è difficile consumarlo nei caffè di montagna o delle fredde città del Nord e perché no anche in casa visto che la sua preparazione non è poi così difficile. Sarà sufficiente riscaldare del buon vino rosso – o, se si vuole trasgredire la tradizione, vino bianco – aggiungendo poi zucchero o miele, spezie, dalla cannella ai chiodi di garofano, e in alcuni casi scorze di limone, anice stellato, mela o mandarino. Ciò che fa la differenza nella riuscita di un buon vin brulé è la scelta di ingredienti di qualità: più è pregiato il vino, meno sarà necessario “correggerlo” con lo zucchero, quanto al qualcosa in più dipende dalla creatività di chi lo prepara.  La tradizione è molto sentita in questo stralunato Natale: in Germania, ad esempio, nonostante la chiusura imposta dal Governo dei mercatini, tanti ristoranti e locali tedeschi hanno deciso di aprire

Oltre a Banyuls e Maury da uve Grenache come è tradizione Oltralpe, con percentuali medie e medio-alte di cacao, non tradiscono mai il Recioto di Valpolicella, il Primitivo di Manduria dolce naturale o addirittura i liquorosi, come Jerez, Marsala, Vermut, Porto Tawny e Pineau Charentais. Nel caso invece di cioccolato bianco o al latte ci si orienterà su passiti di grande spessore, quali Tokaji Aszù, Recioto di Soave e Greco di Bianco. Con il “noir” assoluto e con gli extreme 90-99%, abbinamenti altrettanto estremi con acqueviti invecchiate dai profumi eterei, quali Rum, Brandy, Cognac e Armagnac, o magari anche Scotch Whisky, purché morbidi (vedi gli SherrywoodCask e simili) e non troppo torbati, perfetti anche per tartufi gelati e altre preparazioni sottozero. Grappe aromatiche, invece, da Moscato e Riesling, nel caso di praline con pistacchi, mandorle e simili. Panforte al cioccolato richiama un buon Vin Santo di Montepulciano. Per la Sacher Torte perfetto l’abbinamento con il Port IBV. Senza dimenticare, infine, l’opzione analcolica (ma non per questo meno inebriante) dell’abbinamento con le più nobili tipologie di caffé, quali Maragogype o Blue Mountain, o con particolari té come i Pu Er e gli affumicati Lapsang Souchong. Ilaria Martinelli Master  Sommelier

Appena aperto ha ricevuto dalla più celebre guida del mondo, il prestigioso riconoscimento  della stella Michelin: come a dire che non è necessario essere  veterani e famosi sul campo , ma la stella premia la professionalità, la cucina innovativa ma soprattutto imperniata sulla riconoscibilità del prodotto, l’accoglienza. Insomma premia loro: il resident chef Luigi Salomone, le brigate di cucina, il coraggio imprenditoriale del proprietario Lucio Giordano. Un ristorante dal design contemporaneo che non dimentica il fascino del passato, un palazzo borghese di fine ‘800 alle spalle della piazza centrale della cittadina di Nola (NA), nel cuore della vita del piccolo centro campano con una storia antica tutta da raccontare, fatta di personaggi illustri e tradizioni popolari ancora vive. Nato come zona destinata alla macinazione delle olive, fu poi abbandonato e modificato nel tempo. Della struttura originale restano oggi gli antichi archi in tufo che scandiscono lo spazio in maniera longitudinale. Re Santi e Leoni nasce dalla volontà di Lucio Giordano, imprenditore che da ormai sei anni investe in iniziative legate alla ristorazione: già all’attivo si possono contare due ristoranti giapponesi Misaki rispettivamente a Sorrento e Pompei” Questo riconoscimento- dice l’imprenditore- arriva dopo un percorso caratterizzato da decisioni prese in un momento

Barolo (Cuneo), riuscita prima su sei candidature : Bianco (Reggio Calabria), Duino Aurisina (Trieste), Montepulciano (Siena), Montespertoli (Firenze), Taurasi (Avellino) e Tollo (Chieti), ha già in programma ben 24 iniziative, alcune delle quali in collaborazione con Barolo&castle Foundation. ” Tra le tante iniziative- dice il presidente di Città del vino, Floriano Zambon, un Barolo dall’alto valore sociale.  Dalla storica e prestigiosa vigna “Cascina Gustava” a Grinzane Cavour, acquisita recentemente dalla Fondazione Cassa di risparmio di Cuneo (Crc), nascerà d’ora in avanti un Barolo da mettere all’asta e che sarà venduto con la formula “en primeur” (pre-imbottigliamento), il cui ricavato andrà a iniziative con finalità sociale”. Il progetto, promosso dalla Fondazione Crc, coinvolge la Scuola enologica di Alba, il Consorzio Barolo Barbaresco Alba Langhe e Dogliani e il Centro Enosis Meraviglia di Donato Lanati, a cui è stato affidato il processo produttivo. Nelle scorse settimane, gli allievi del VI anno della Scuola enologica di Alba hanno consegnato una parte delle uve dell’annata 2020, di fatto dando il via al progetto. Per loro, ci sarà l’occasione di seguire tutte le fasi e apprendere le tecniche della realizzazione di un vino di alta qualità come il Barolo, in un percorso didattico all’interno del corso

“Un vino importante che si apprezza nel tempo” lo ha definito così a dieci anni dal riconoscimento della Doc, Alberto Chiarli presidente dell’Albarossa Club,  associazione che si occupa della tutela e promozione di Albarossa, un rosso piemontese nell’ambito del consorzio Barbera d’Asti e vini del Monferrato nella Doc Piemonte il vitigno è nato nel 1938 dagli studi del professor Giovanni Dalmasso – docente di enologia e viticoltura prima a Conegliano e poi preside della Facoltà di Agraria dell’Università di Torino –  ma per ottenere un vino elegante come  il Nebbiolo e fresco coma la Barbera, si deve arrivare alle  microvinificazioni  presso la Tenuta Cannona di Carpeneto, campo sperimentale della Regione Piemonte.  Si formò subito un primo nucleo di aziende con Chiarlo, appunto, Bava, Banfi, Castello di Neive  cui se ne sono aggiunte via via altre – ultima la Cantina di Maranzana – che ha portato a venti il numero totale di realtà coinvolte nel progetto. L’area vitivinicola vocata attraversa Langa, Monferrato e Roero, ma si concentra  in  una fascia collinare che da Santo Stefano e Canelli, attraversa Nizza Monferrato e arriva nel bacino dell’Acquese: un patrimonio vitato di 70 ettari con una produzione di circa 500 mila bottiglie che oltre ai ristoranti locali, enoteche , si è

Acquolina in bocca per questo dolcissimo ( è il caso di dirlo) progetto della famiglia Ceretto che da anni affianca alla produzione vitivinicola l’attività dolciaria UN TRIS D’ASSI  con il maître chocolatier Gabriele Majolani e con il maestro pasticcere Gino Fabbri. Un incontro di tre famiglie, unite da storie di eccellenza: la famiglia Ceretto, terza generazione alla guida delle omonime cantine, Gabriele Majolani, esperto maitre chocolatier che vanta una profonda e raffinata conoscenza dell’ingrediente cioccolato, e Gino Fabbri, da oltre 40 anni rinomato maestro pasticciere italiano impegnato in una costante ricerca di qualità dei prodotti di cui ne esaltala genuinità delle materie prime. Oggi la famiglia Ceretto celebra la Nocciola Piemonte IGP reinterpretando uno dei più classici e celebri sapori piemontesi con il cioccolato gianduja Relanghe. L’incontro tra l’eccellenza della materia prima, l’attenzione di un maestro esperto come Majolani e la cura verso la valorizzazione delle tipicità artigianali promosse dalla famiglia Ceretto, rivelano caratteristiche uniche di questo gianduja, un prodotto in cui la Nocciola è la protagonista principale e l’ingrediente preponderante per dar origine ad un giandujotto dal gusto pieno e deciso, che rievoca la ricetta originale volutamente studiata e qui riproposta. Inoltre vengono presentate per la prima volta due nuove

“Sabato trippa, giovedì gnocchi”: una massima popolare per indicare una tradizione culinaria, ma se la trippa , di regola bovina, doveva essere consumata rapidamente dopo la macellazione effettuata di giovedi o venerdi perché giovedi gnocchi?  Onestamente nessuno può dirlo, mentre il termine gnocco ha un’antica origine probabilmente altoatesina, da cui i knodel. Proseguendo il suo cammino verso il meridione il termine gnocco si diffonde nel Veneto e nella Pianura Padana dove è più interpretato come piatto povero costituito da farina impastata con l’acqua o al massimo con qualche uovo, foggiati come un piccolo cilindretto, lessati e conditi con burro e formaggio o sugo. Ma quando entra la patata? Alla fine del settecento. Il primo a darne la ricetta fu Francesco Leonardi nel suo L’Apicio Moderno, ma solo nell’Ottocento da piatto povero diventa borghese come testimonia Pellegrino Artusi che nel suo La scienza in cucina e l’arte di mangiare bene ci fornisce la ricetta, semplice: Patate grosse e gialle, gr 400 Farina di grano gr 150 “Cuocete le patate nell’acqua bollente o ,meglio a vapore, e calde ,bollenti spellatele e passatele al setaccio Poi lavorate l’impasto con le mani tirandolo a cilindro sottile per poterlo tagliare a tocchettini lunghi tre centimetri circa. Spolverizzateli leggermente di

650 indirizzi e tanti spicchi per raccontare le eccellenze del cibo più amato dagli italiani: la pizza. Esce l’ottava edizione della Guida Pizzerie d’Italia del Gambero Rosso per raccontare un comparto che ha sempre continuato a lavorare nonostante il lockdown, l’emergenza sanitaria che non cessa, nonostante fare guide in questo periodo sia più complesso che mai. Lasciati da parte i voti e le classifiche, restano gli spicchi a seconda del grado di eccellenza, cui si aggiungono i simboli di asporto e delivery, senza “sfumature” di merito. Nessun calo di attenzione, solo una pausa, durante la quale la squadra del Gambero Rosso non ha smesso di premiare chi lo merita, proprio come testimoniano i nuovi ingressi tra i Tre Spicchi e le Tre Rotelle della nuova guida I numeri Nella guida su oltre 650 esercizi segnalati, con un’appendice dedicata delle migliori pizzerie italiane nel mondo, si contano ben 14 nuovi ingressi tra i premiati con i Tre Spicchi (Gabriele Dani con Disapore La Pietra a Cecina (Li) – Giovanni Santarpia a Firenze – Angelo Rumolo con Le Grotticelle.a Caggiano (SA) – Diego Vitagliano con 10 Diego Vitagliano a Napoli e Pozzuoli – Andrea Godi con 400 Gradi – Matteo La Spada L’Orso a Messina – Sergio Russo con Da

Dell’uso dell’aceto come conservante alimentare abbiamo traccia già in documenti babilonesi e nella Bibbia. Con Ippocrate l’aceto diventa una risorsa comunemente utilizzata per sanare ferite e infiammazioni, ma anche per uso sistemico, come antitussivo e antinfettivo; Medio Evo e Rinascimento mantengono questi impieghi e ne propongono altri, tra cui alcuni decisamente improbabili, come la cura della calvizie o la prevenzione di malattie epatiche. Negli Stati Uniti del XVIII secolo era del resto ritenuto un antifebbrile e un rimedio valido per la laringite difterica e la gastrite. Testimonianze cinesi, in scritti risalenti alla dinastia Ming (XVI secolo) confermano l’uso dell’aceto per la conservazione alimentare, ma anche per la disinfezione di ambienti (per esempio in occasione di un parto), o per l’efficacia antibatterica nell’uomo. L’aceto resta nei secoli una risorsa non sostituibile sui campi di battaglia, dove viene utilizzato come antisettico fino a tutta la Prima Guerra mondiale. Da non dimenticare l’uso diluito che dell’aceto facevano i legionari romani, consumandolo come bevanda che, anche nel Giappone dell’VIII secolo d.C., era ritenuta dai samurai un tonico tale da fornire forza e potere. In generale, il consumo di aceto di qualità per gli usi correnti, come ingrediente di condimenti, salse, ricette e come conservante è sicuro e ben