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Rubrica di Emanuela Medi
 

Il Frascati Superiore tra miseria e nobiltà

Un articolo in memoria di Michael Broadbent, critico, banditore d’asta e membro dell’High Society londinese, e la riflessione sui “Parigi e i vini-monumento” nel Romanzo del Vino di Roberto Cipresso.

Queste sono state le mie ultime letture. Ho trascorso mezza giornata immerso in due racconti fiabeschi – per quanto non privi di acume critico – della parte più patinata, più aristocratica, più mitizzata della galassia enoica: quella che ruota attorno a vini davanti ai quali “inchinarsi è un obbligo, non una libertà”. Potevo trarne ispirazione ed aprire l’unica bottiglia per così dire “monumentale” che conservo in cantina… e invece mi è venuta voglia di stappare un Frascati!

Zero pretese, poche aspettative, nessun pedigree ma tanto piacere. Il Frascati Superiore è “l’ AntiMontrachet”, ma questo non significa che non sia capace di regalare grandi soddisfazioni. Peraltro, quello che avevo da parte è prodotto da una famiglia che è approdata a Frascati dopo avere a lungo rifornito di Grand Cru la “noblesse oblige” romana. Parlo, ovviamente, dei Costantini, titolari dell’omonima enoteca su Piazza Cavour, a due passi dalle Mura Vaticane.

Grappolo Frascati Superiore

Piero, proprietario del caveau delle meraviglie al quale tutti gli enofili capitolini sono affezionati, ha acquistato Villa Simone, podere cardinalizio in quel di Monteporzio Catone, nel 1982. È stato, però, il passaggio di mano al nipote Lorenzo, enologo molto noto in regione, a consentire all’azienda di diventare un faro nel mare burrascoso del vino laziale. Fin dal suo subentro nei primi anni 90’, Lorenzo ha portato avanti un’opera di perfezionamento delle tecniche di vinificazione, selezioni dei migliori autoctoni e reimpianto dei vigneti con maggiori densità per ettaro e sistemi di allevamento mirati alla qualità. Così facendo, ha inaugurato un nuovo tracciato che molti produttori frascatani hanno percorso al suo seguito. 

La punta di diamante di Villa Simone è il Frascati Superiore Riserva Vigneto Filonardi. Rifacendomi alle letture precedentemente menzionate, potrei definirlo un piccolo monumento a questa denominazione bistrattata: un “Monrascè de’ noantri” che mette in luce il potenziale di un territorio piagato da produzioni dozzinali, frutto di rese iperboliche e processi enologici svilenti.

Del resto, il vigneto ha una lunga storia alle spalle: già nel 1806, Natale Filonardi, erede dell’omonima dinastia, ne traeva quelle che in un registro dell’epoca vengono definite le migliori trenta botti di vino di tutta la zona. La collocazione, poi, evoca più di qualche reminiscenza transalpina: il Cru si trova, infatti, sul crinale di una collina esposta a Midí, ad un’altitudine di 400 metri e su fertili suoli vulcanici dai quali gli autoctoni Malvasia del Lazio, Malvasia di Candia, Trebbiano e Grechetto ottengono il nutrimento necessario per dare vita a un prodotto di sostanza.

Degustazione

Apertura anticipata, decantazione, servizio in balloon di cristallo griffati? No, nulla tutto di questo. Il Vigneto Filonardi 2017 si esprime in tutta franchezza anche quando lo si versa dalla bottiglia appena stappata in un bicchiere ordinario. Il suo bouquet è per così dire “essenziale”: niente descrittori altisonanti, solo un mix invitante di pesca gialla, mandorla tostata, erbe spontanee e qualche sussurro affumicato. Il sorso è lineare, coinciso, più rilassato e meno guizzante del solito per via del millesimo africano; la sapidità ne sorregge comunque la struttura robusta, calorosa, e sfuma lenta in un finale gradevolmente ammandorlato. 

Va da sé che il fois gras deve essere messo da parte e che le ostriche potrebbero esaltare la vena amarognola fino a renderla spiacevole: meglio “accontentarsi”, pertanto, di una fetta di pecorino romano con una goccia di cotognata o di primi piatti “poveri” – ma ricchi di sapore – come quelli della tradizione romana.

Me ne viene in mente uno in particolare che, come dicono da quelle parti, è proprio “la morte sua”; ha come ingredienti il pepe, il guanciale, le uova e il pecorino, e qualche maligno sostiene che sia stato inventato per le truppe americane nel 44’….

Raffaele Mosca,

Master Sommelier

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Scritto da

Emanuela Medi giornalista professionista, ha svolto la sua attività professionale in RAI presso le testate radiofoniche GR3 e GR1. Vice-Caporedattore della redazione tematica del GR1 “Le Scienze”- Direttore Livio Zanetti- ha curato la rubrica ”La Medicina”. Ha avuto numerosi incarichi come il coordinamento della prima Campagna Europea per la lotta ai tumori, affidatole dalla Commissione della Comunità Europea. Per il suo impegno nella divulgazione scientifica ha ottenuto numerosi riconoscimenti: Premio ASMI, Premio Ippocrate UNAMSI, premio prevenzione degli handicap della Presidenza della Repubblica. Nel 2014 ha scritto ”Vivere frizzante” edito Diabasis. Un saggio sul rapporto vino e salute. Nello steso anno ha creato il sito ”VINOSANO” con particolare attenzione agli aspetti scientifici e salutistici del vino. Nel 2016 ha conseguito il diploma di Sommelier presso la Fondazione Italiana Sommelier di Roma.. Attualmente segue il corso di Bibenda Executive Wine Master (BEM) della durata di due anni.