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Rubrica di Emanuela Medi
 

Il Vino è anche scienza

Nel 1856 fu chiesto a un giovane chimico francese, Louis Pasteur, di trovare un modo per evitare l’inacidimento di grandi quantità di vino, cosa che generalmente avveniva durante la fermentazione del mosto.

Il problema era delicato, quintali di vino venivano buttati ogni anno senza che nessuno fosse in grado di scoprirne la causa. E questa volta non c’era l’esperienza dei contadini turchi o di  chissà chi altri a consigliare il da farsi! Tutto ciò che si sapeva era che per trasformare il mosto in vino bisognava aggiungere nelle botti un particolare lievito. Eppure, senza apparente motivo, alcune botti davano il vino buono e altre dell’orribile aceto. Perché?

Pasteur, che era un chimico, a differenza della maggior parte dei medici dell’epoca, aveva una certa familiarità con il metodo sperimentale. Si mise quindi a studiare quel lievito da scienziato, con microscopio e provette. Scoprì così con sua grande sorpresa che si trattava di una sostanza animata: in altre parole il lievito era composto da “animaletti che digerivano” il mosto e lo trasformavano in vino. Non solo: nel vino buono gli animaletti avevano forma rotondeggiante, mentre in quello andato a male erano più allungati. Pasteur fece due più due e concluse che quegli “animaletti” dalla forma allungata erano i responsabili dell’inacidimento del vino. Provando e riprovando – quindi con metodo scientifico – riuscì a trovare il modo per distruggerli senza nuocere quelli “ buoni”, bastava  riscaldare il mosto alla giusta temperatura. Il problema dell’inacidimento del mosto era definitivamente risolto, con grande sollievo per i produttori di vino. Quel processo venne chiamato in suo onore “pastorizzazione”: oggi  non è quasi più utilizzato per il vino in quanto si usano altre tecniche microbiologiche di controllo, mentre per il latte resta una operazione fondamentale.

Emanuela Medi, giornalista

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