Il Monte della Cuccagna
Il carnevale a Napoli fu una delle tradizioni festive più rappresentative dell'epoca vicereale e borbonica, momento transitorio di eccessi e sovvertimento.
Il carnevale a Napoli fu una delle tradizioni festive più rappresentative dell'epoca vicereale e borbonica, momento transitorio di eccessi e sovvertimento.
Prima che Ferdinando IV, con il reale dispaccio del 1792, desse ufficialmente inizio al sistema moderno di denominazioni, a Napoli i nomi delle vie, incerti e non ufficialmente codificati, derivavano soprattutto da antichi toponimi.
In questa rubrica abbiamo iniziato a descrivere preferenze alimentari e abitudini di tavola dei re di Napoli nel passaggio, alquanto tumultuoso, tra primo Periodo Borbonico, Rivoluzione Napoletana, Regno Murattiano e Restaurazione. Periodo cui si fanno generalmente risalire alcune delle più interessanti evoluzioni del costume alimentare, sia dei regnanti, sia dello stesso popolo napoletano, insieme, talvolta, a quella sorta di “scienza ludica” tipica di certe corti che aveva toccato le sue punte massime già nel primo Cinquecento, nelle invenzioni di Leonardo da Vinci a Milano.
Il sughero, la grotta, i pastori, il Bambinello se c’è un soggetto immutato nei tempi dove nulla è casuale e tutto ha un suo posto e un suo ruolo, questo è il presepe napoletano
Tra i documenti che più nel dettaglio ci raccontano di come alla corte di Napoli si vivesse, e soprattutto ci sedesse a tavolo, ci sono i diari di Chatherine Davies, la bambinaia inglese dei figli di Gioacchino Murat e di Carolina Bonaparte,.
Quanto la tavola, i pranzi, il numero delle portate, il numero e la “qualità”degli invitati, la prelibatezza e la varietà dei cibi fossero importanti nelle corti, e, più in generale, presso le aristocrazie europee in età moderna, è cosa nota.
Un antico proverbio, che la dice lunga su quanto il popolo di Napoli fosse, da un lato stanco di lotte e invasioni, dall’altro sempre povero e affamato, recitava “Francia o Spagna purché se magna”.
Direttamente dall’UNESCO, riunito in Corea del Sud arriva la notizia: l’arte dei “pizzaiuoli” napoletani, e con essa la PIZZA, è Patrimonio Immateriale dell’Umanità. Gioisce il popolo Napoletano e quello Italiano L’ambito riconoscimento giunge a riconoscere valore alla creatività dei pizzaioli che sono stati capaci di trasformare elementi primari come acqua e farina in un capolavoro artistico e culturale, che rappresenta l’Italia nel mondo intero. Fu Alfonso Pecoraro Scanio, che in passato è stato Ministro dell’Agricoltura, ad avviare la petizione a sostegno della causa tra i tavoli del Napoli Pizza Village nel 2014, non poteva certamente immaginare di quante gioie sarebbe stato ricco questo percorso durato ben 3 anni. Da allora sono state raccolte oltre 2 milioni di firme in oltre 100 stati del mondo. Claudio Chiricolo
Una delle storie più belle narrate da Benedetto Croce, è quella di Alfonso d’Aragona e Lucrezia D’Alagno Alfonso, giunto come conquistatore a Napoli vi si trasferì definitivamente, innamorato parimenti dell’amenità dei luoghi e delle dolce, giovanissima Lucrezia. Spesso si tratteneva a Torre del Greco, nei giardini della casa dove vivevano i D’Alagno, dove si era fatta edificare una stanza. Lí la fertilità della terra si rivelava in tutta la sua profumata bellezza e della sua regale generosità tutti i D’Alagno ebbero modo di fare esperienza. Lucrezia, aspettando di poter diventare regina alla morte della ormai non troppo in salute Maria di Castiglia, amava considerarsi piuttosto la fidanzata che l’amante del re. E come tale era trattata da ambasciatori e sovrani che sovente venivano ricevuti in quei giardini prediletti dal re. La tradizione vuole che Alfonso abbia importato, proprio nella zona vesuviana, i suoi vitigni preferiti: un’uva bianca, rotonda, dalla consistente buccia dorata. Un’uva davvero regale che, una volta impiantata nel terreno vesuviano, ne assorbì talmente la forza da diventare, potremmo dire con un po‘ di immaginazione, come il re, impossibile da trapiantare altrove. Un vitigno che ancora oggi conserva il nome della sua provenienza: Catalanesca, e che produce un vino in duplice versione,
Piero Caterina dell'azienda Barone Cornacchia: due generazioni a confronto Piero Cornacchia, titolo baronale ricevuto dall’allora Vicerè di Napoli, con l’Unità d’Italia si sposta dalle terre che si estendevano attorno alla Fortezza di Civitella a quella che era la riserva di caccia, in una frazione del Comune di Torano Nuovo, ove oggi ha sede l’azienda. Cambio generazionale: una questione di età? “Non è stata un questione di età… Il passaggio c’è stato: i tempi cambiano enormemente, molti inequivocabili segnali mi indicavano l’esigenza di innovare e questo poteva avvenire solo attraverso un cambio di mano, quindi con idee, forze, imprenditorialità diverse, più fresche, al passo con i tempi. La scelta era direi doverosa. Da una concezione molto tradizionalista, a una certamente più moderna; e poi non dimentichiamo che tutti viviamo su queste terre e di queste terre. Caterina e Filippo lavorano in azienda, hanno entrambi figli ed era giusto dare loro un lavoro.. perché andarlo a trovare altrove!" Caterina, da poco avete preso in mano l’azienda introducendo con tuo fratello Filippo molte novità. "Intanto abbiamo ottenuto la certificazione biologica e questo secondo noi, conferisce all’azienda un salto di qualità e di credibilità. La gente vuole bere “sano” quindi senza fertilizzanti, Ogm, diserbanti chimici, anticrittogamici ecc. L’uva